lunedì 8 giugno 2009

Vince il populismo che cavalca lo scontento




Le elezioni europee si sono concluse con un risultato chiaro: i vincitori sono due: da una parte la Lega Nord che si attesta attorno al 10 % migliorando di 2 punti il risultato delle elezioni politiche precedenti, dall'altra l'Italia dei Valori che raddoppia rispetto alle politiche e raggiunge l'8 %.
Il PdL è ben lontano da quel successo clamoroso più volte annunciato, perdendo anche qualche voto. Perde 6 punti il Pd che scende al 26 %. Sostanzialmente invariati i rapporti di forza tra i due blocchi: PdL-Lega e Pd-Idv.
Non passa lo sbarramento nessuna delle due liste della sinistra pur registrando un miglioramento: i comunisti si attestano attorno al 3,4 %, Sinistra e Libertà al 3,1. Complessivamente raggiungono il 6,5 %, mentre alle elezioni politiche la Sinistra Arcobaleno toccò appena il 3 %. Un certo incremento ma insufficiente di fronte alla soglia falciatrice dello sbarramento al 4.
Il dato più significativo è l'avanzata dei due partiti che maggiormente hanno sfruttato lo scontento popolare.
Innanzitutto la Lega Nord, che è riuscita a catalizzare l'attenzione attorno a una serie di tematiche come l'immigrazione e l'ordine pubblico. Ha saputo sfruttare il disagio sociale delle masse che in questi anni hanno subito le politiche liberiste e la crisi internazionale. Ma questo disagio è stato convertito in un clima di diffidenza nei confronti dello straniero e del diverso in generale (barboni, prostitute ecc.) che ha molto giovato ai leghisti. Il partito regionalista ha poi saputo sfruttare il notevole radicamento territoriale che ha costruito in tutti questi anni. Un radicamento che non ha eguali in nessun altra forza politica attuale, nemmeno nei due partiti maggiori. Costituisce quello che una volta si chiamava un “partito di massa” e che contava sezioni ramificate sul territorio – e che allora era tradizionalmente espressione della sinistra, soprattutto il PCI: la Lega ha costruito una forte identità politica con un profilo molto netto e molto riconoscibile e diversificato rispetto agli altri partiti, anche del centrodestra, i cui confini ideologici sono sempre più sfumati. Questo notevole radicamento, che lo rende addirittura il primo partito in molte aree del nord fa sì che possa disporre di una notevole capacità di mobilitazione. La Lega ha uno “zoccolo duro” di elettorato che vota e continuerà a votare sempre Lega, forse per decenni, un elettorato che si riconosce fortemente in quei “valori”. Questa è stata una evoluzione notevole della Lega nel tempo. Mentre inizialmente era soltanto un partito “di protesta” (di che si sentiva deluso dalla Dc ma che era comunque ideologicamente e socialmente troppo lontano dal Partito Comunista) sostenuto soprattutto da imprenditori, commercianti e liberi professionisti, tutta quella piccola borghesia individualista e desiderosa di un minor controllo dello Stato nei suoi confronti (e magari maggiore sull'ordine pubblico), ha poi saputo conquistare anche i ceti meno abbienti, strappandoli alla sinistra via via che si disfaceva il PCI. Ha utilizzato abilmente la questione sociale non per indirizzare la sua azione politica verso un rovesciamento dei rapporti sociali (e quindi della lotta di classe come faceva la sinistra di un tempo) perché c'è un valore ideologico di stampo decisamente conservatore e liberista dovuto al forte sostegno che le è stato assicurato dalla ricca borghesia industriale e finanziaria del nord. Così il disagio delle classi popolari è stato colto ma non per cambiare la struttura economica, bensì per volgerne lo scontento da un lato in polemica con i dirigenti e i funzionari statali lontani dai loro interessi, soprattutto economici, dall'altro verso le fasce emarginate della società, quelle del sottoproletariato urbano costituito da immigrati, mendicanti, prostitute e disoccupati spesso coinvolti nella microcriminalità (e sfruttati spesso dalle grandi organizzazioni criminali). L'”anticentralismo” che si è tradotto in proposte di modifiche in senso federalistico dello stato, è stata utile per proporsi come alternativa alla classe dirigente dei “salotti romani” e alla ghettizzazione della periferia rispetto al centro (erano prima gli anni della “Milano da bere” poi la “stagione dei sindaci” delle grandi città mentre la periferia veniva dimenticata). La “guerra tra poveri” è stata usata efficacemente per conquistare consenso non solo presso l'elite dei piccoli imprenditori del nordest, ma anche presso gli stessi lavoratori di quelle zone, sfruttati dai primi. Ora la Lega ha un elettore “fedele” che difficilmente l'abbandonerà e che le consentirà di conservare una base sicura rilevante di consensi anche in momenti meno favorevoli.
Poi c'è l'Italia dei Valori, partito personale di Di Pietro, tutto incentrato sulla figura carismatica, e anche un po' folcloristica, del suo capo. Le ragioni del suo successo stanno tutte nel fallimento del PD. L'Idv è, al contrario della Lega, un partito senza un'identità e una simbologia precisa scarsamente rapportatosi col territorio (e ne è la prova che le differenze di consensi tra le diverse zone geografiche variano di poco) ma il cui capo ha avuto la capacità di sfruttare il mezzo mediatico e di comunicare a quella fascia di elettori scontenti dalla linea del Partito Democratico, giudicata troppo cauta e ambigua e poco incisiva. Anche l'Italia dei Valori come la Lega nord si è avvantaggiata del malcontento, ma lo ha diversamente indirizzato. Mentre il Carroccio lo ha sfruttato per colpire la vecchia classe dirigente e il sottoproletariato, sostituendo una nuova elite che spostasse l'asse geo-politico dal Centro Italia al Nord, e orientando i rapporti sociali in favore del profitto e a danno del salario, il partito di Di Pietro se ne è avvalso per polemizzare contro la corruzione del sistema politico, contro “la casta”, per costruirsi un'immagine di “cane sciolto” attraverso i media. L'Idv non ha una base solida, come invece la Lega. Non esiste in effetti l'elettore dell'Italia dei valori. Questi è piuttosto un elettore del Pd deluso o uno che votava per la sinistra prima che questa venisse esautorata dal parlamento italiano, e in conseguenza dai media, e perdesse così la propria visibilità. Egli si rivolge prevalentemente a quelle fasce piccolo-borghesi che si riconobbero nel periodo di “Mani pulite”. Nonostante il linguaggio incendiario, che ha lo scopo di catalizzare anche i settori più radicali di un elettorato tendenzialmente di sinistra, il suo scopo non è un ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi, una riforma radicale dello stato, un forte e deciso intervento legislativo (tipico dei movimenti politici più radicali) ma un perfezionamento delle istituzioni esistenti, una maggiore trasparenza di quest'ultime, un rinnovo (generazionale ma non sociale) della classe dirigente, un miglior equilibrio tra poteri statali. In questo senso l'azione di Di Pietro è perfettamente in linea con la tradizione liberale pur se mascherata nelle sembianze di movimento “anti-sistema”.
La retorica “politicamente scorretta” e aggressiva serve proprio a travestire l'assenza di un concreto e reale progetto di trasformazione della società, la mancanza di un progetto politico di difesa della classe lavoratrice (come era quello della sinistra socialista e comunista i cui elettori orfani offrono ampio terreno di raccolta per l'Idv).
La dottrina liberale classica è stata smentita dalla storia, screditata agli occhi dei suoi stessi adepti, soprattutto dalla crisi internazionale che ha rivelato le diseguaglianze sociali di classe che da tempo erano incubate ma che recentemente si sono manifestate nella loro massima virulenza e hanno persino avuto una rappresentazione, anche se parziale e distorta, nei media. Perciò quella dottrina, per decenni arma ideologica della classe dominante, non poteva essere riproposta “nuda e cruda”. Così Di Pietro, che non è certo un teorico capace di concepire una sistematizzazione intellettuale, ma un intuitivo, ha astutamente, seppur poco coerentemente, intrecciato il liberalismo di fondo con il populismo e l'antagonismo di facciata.
Non ci si faccia ingannare dall'immagine ideologico-mediatica sapientemente costruita: Di Pietro e il suo partito personale non sono una forza “anti-sistema”, ma la tendenza da parte del sistema stesso di volgere il dissenso a proprio vantaggio e ricondurlo entro i confini del mantenimento sostanziale dei rapporti di produzione vigenti. Il meccanismo, sia per la Lega che per Di Pietro, è lo stesso che ha portato all'ascesa del nazi-fascismo, seppure naturalmente in forme molto meno drammatiche: l'elite dirigente è in crisi, le masse danno segni di insofferenza, tutto questo potrebbe portare a uno sconvolgimento dei rapporti di forza tra classi se non addirittura al disfacimento dell'egemonia conquistata, così si favorisce l'ascesa di un movimento “di protesta” apparentemente rivoluzionario, ma in realtà fortemente conservatore e dopo averlo incentivato opportunamente (sia politicamente attraverso alleanze tattiche che economicamente attraverso ingenti finanziamenti) lo si utilizza per “ristabilire l'ordine” e rafforzare il dominio sociale ed economico che era in pericolo. Una volta raggiunto l'obiettivo ce ne si sbarazza, sempre che non finisca di per rivolgersi contro proprio coloro che lo hanno attizzato.
La Lega e l'Italia dei Valori hanno questa funzione in Italia. Ricondurre all'ovile le pecorelle smarrite. E la dimostrazione è che Berlusconi e i dirigenti del Pd, che servono gli interessi finanziari e industriali del capitalismo italiano, non li contrastano, ci si alleano e sperano così di recuperare attraverso di loro i consensi che perdono.

3 commenti:

  1. C'è poco da aggiungere ad un post completo e assolutamente condivisibile.

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  2. Ma perché le Sinistre si sono divise? Lo sapevano, o no, che c'era lo sbarramento? E, se lo sapevano, non sono da considerare cause del loro male? I tre leader, che sono stati incapaci di unire le forze in un momento difficile, come possono pretendere che gli elettori diano loro fiducia?
    Spesso la forza di una compagine (per es. Lega, IDV) deriva dalla debolezza altrui (nel nostro caso, le Sinistre).

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  3. Sicuramente la sinistra attraversa un momento non facile in Italia.
    Tuttavia io non credo che la domanda sia perché le forze della sinistra si sono divise, ma attorno a quale progetto politico possono essere unite?
    L'unità è una cosa fondamentale, ma non può prescindere dalla condivisione dell'azione politica. Quando questa condivisione manca è meglio restare divisi.
    Lo dimostra il fatto che alle precedenti elezioni c'era un'unica lista di sinistra che prese la metà dei voti raccolti dal totale delle due liste sommate.
    Sono d'accordo che il successo del popolismo ha potuto giovarsi anche della debolezza della sinistra. Parecchi anni fa un partito da caratteri simili a quelli che ho descritto come l'"Uomo qualunque" non ebbe grande successo grazie anche alla presenza radicata della sinistra socialista e comunista. Oggi bisogna ricostruire quella presenza ma non con cartelli elettorali che dietro l'apparenza dell'unità nascondono un'identità confusa, bensì attraverso il ritorno della presenza sul territorio, del cosiddetto "radicamento".

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