"Mi chiamo Giulia e vivo a Pisa ultimamente tutti
parlano di crisi io sono ottimista forse perché a me bastano le cose semplici io
preferisco andare in bici che in una super macchina andare in vacanza dalla
nonna, più che in un resort preferisco la pasta col pomodoro al sushi un panino
col salame, al caviale e la pizza, al patè perché invece che andare a una cena
di gala preferisco stare tutti a casa a mangiare il ragù della mamma con una
coca cola"
Se qualcuno ha visto l'ultimo spot della Coca Cola sarà forse rimasto infastidito.
Nello spot una ragazzina di nome Giulia parla della crisi: “ultimamente tutti parlano di crisi io sono ottimista forse perché a me bastano le cose semplici”.
Un buonismo ingenuo dalla voce innocente di una ragazzina per mascherare un messaggio culturale. Ovvero la “soggettività” della crisi, che sarebbe dovuta non ai meccanismi del sistema economico ma alla psicologia individuale. La crisi la subirebbe chi non si accontenta delle “cose semplici” (una delle quali sarebbe la Coca Cola). La ragazzina invece dichiara di preferire “andare in bici che in una super macchina andare in vacanza dalla nonna, più che in un resort”. In questo modo la multinazionale suggerisce in modo apparentemente ingenuo e banale (come vogliono apparire tutti i messaggi dell'industria culturale e della propaganda mediatica) quella che sarebbe la soluzione della crisi: prodotti più “semplici”, meno costosi. Beni di consumo di massa, quali appunto la nota bevanda sponsorizzata. Vorrebbe contrapporre quindi a un modello di consumo di lusso, un modello di consumo massificato, basato sulle merci alla portata del consumatore medio. La crisi è quindi, secondo una teoria purtroppo ampiamente diffusa, un prodotto dell'“avidità”. Se siete sul lastrico è solo colpa vostra, perché vuol dire che avete voluto troppo. Ecco il messaggio che si vuole trasmettere. Ma questo è un modo per nascondere la vera natura della situazione economica e delle sue cause reali. Quasi che subire gli effetti della crisi fosse dovuto esclusivamente allo “spendere troppo” di chi la subisce. Ma questa idea confonde carnefici e vittime. Solo a volte le categorie degli “scialacquatori” e degli “indebitati” coincidono, ma in genere questo non avviene. È difficile pensare che un operaio abbia mai potuto solo pensare di potersi permettere “una supermacchina” o “un resort”, o pasteggiare con caviale e paté. La maggior parte dei lavoratori, dei pensionati e dei risparmiatori a questi lussi non pensa neanche. Essi sono invece riservati a un elite privilegiata (come i manager della Coca Cola, verrebbe da dire!) che è quella che spende in prodotti di lusso, che è quella che ha permesso l'indebitamento di banche e imprese, che è quella che ci ha portato su questa crisi. Sono permessi a una fascia di classe media arricchita, portata momentaneamente sulla cresta dell'onda, illusa che questo successo fosse permanente.
La pubblicità invece scarica la colpa sui ceti medio-bassi dicendo, con apparente buon senso, che per superare la crisi basta bere Coca Cola, basta “accontentarsi” dei prodotti “genuini”, quasi che la Coca Cola sia paragonabile al “ragù della mamma”.
In realtà ai “creativi” di questo spot bisognerebbe far sapere che la maggior parte delle persone si “accontenta” già da un bel po' di tempo, già da prima della crisi, e che la crisi li ha indotti a rinunciare anche a quei beni essenziali e minimi per una famiglia. Altro che “resort” e “supermacchina”!
Lo spot veicola un messaggio propagandistico che spesso abbiamo sentito dalla elite al governo dell'economia e dello Stato: “ottimismo”, la crisi è un fatto soggettivo dovuto a cause soggettive.
Ma a tutte le migliaia di lavoratori che perdono il posto non si può dire che i loro problemi derivano dall'aver sbagliato a fare la spesa.
Questo genere di comunicazione è al servizio non solo di un prodotto particolare, ma dell'intero sistema consumistico che induce al consumo di massa. Così si spiega lo specchietto per le allodole dei prodotti di lusso (che in realtà occupano una fetta limitata e poco significativa del mercato), inseriti per distrarre il pubblico e dare una parvenza di intento “critico”, di “pubblicità progresso”. Ma il vero scopo è quello di indurre a consumare. Consumare prodotti di massa, certo. Proprio quelle merci prodotte in abbondanza al di là di ogni effettiva necessità e su cui si basa il sistema capitalistico. Il vero scopo è, ancora una volta, quello di consumare di più: consumate prodotti di massa purché consumiate. Continuate a fare quello che noi abbiamo sempre voluto che voi facciate. Ma come consumare, verrebbe da chiedere, se la crisi ha falcidiato i risparmi e i salari delle persone? Forse attraverso quello stesso indebitamento che la pubblicità finge di criticare?
Questa pubblicità in realtà col suo ostentato “semplicismo” vuole riproporre sotto altre vesti la solita chiave di lettura che conviene alla classe dominante: la crisi non è causata da fattori oggettivi e strutturali al sistema economico stesso che noi proteggiamo, ma a comportamenti individuali di cui noi non siamo responsabili. In altre parole è colpa vostra. Questo è ciò che si vuole comunicare, inducendo nel pubblico un latente senso di colpa che lo renderebbe vulnerabile alla propaganda delle merci.
Ma questa è una lettura del tutto fuorviante e completamente priva di fondamento scientifico. La crisi non è determinata da fattori individuali o addirittura psicologici (come vorrebbero far credere i cantori dell'“ottimismo”) ma dalla struttura stessa della società capitalistica che crea sempre più bisogni ma poi elimina la possibilità materiale di soddisfarli, di soddisfare persino quelli più essenziali. Di qui nasce la “finanza creativa” e tutte le annesse conseguenze.
In un sistema che ha bisogno di produrre sempre di più è necessario consumare sempre di più. Nello stesso tempo però per aumentare la produzione bisogna abbassarne i costi e quindi tagliare salari e stipendi, ma così facendo si tagliano le basi stesse del consumo, ovvero il potere di acquisto dell'utente finale. E allora per cercare di rimediare, attraverso illusioni finanziarie, si crea un consumo artificiale, senza una reale base materiale, favorito dalle banche e dagli istituti di credito, che è il presupposto per il crollo dell'intero sistema.
Per arginare questo crollo intervengono i governi sostenendo le aziende e le banche, produttori e finanziatori, cioè proprio coloro che sono la vera causa della crisi. Invece gli interventi a favore delle vittime, cioè i lavoratori, sono radi e insufficienti: proprio loro sono il vero “ventre molle” su cui scaricare le contraddizioni del sistema. Ma indebolendo i salari, indebolendo il risparmio, si indebolisce il consumo e l'economia intera. E si ricorre così, in un “circolo vizioso”, ancora ad “artifici” e agli appelli al consumo. Però questo non elimina la radice del problema, semplicemente ne rinvia le manifestazioni sintomatiche che compariranno con ancor maggiore vigore in futuro.
In altre parole sono poste le basi non soltanto di una crisi passeggera, ma del modello stesso di società, un modello “insostenibile”, perché genera delle contraddizioni irresolubili se non attraverso l'abbattimento di quel sistema stesso.
Ciò non significa naturalmente che si tratti di un processo rapido. Potrebbero volerci secoli, ma la tendenza è già da ora chiara e delineata e segnerà progressivamente la fine dell'attuale sistema di produzione, o attraverso un superamento dello stesso in favore di uno nuovo e più equo, oppure attraverso il collasso traumatico e il conseguente imbarbarimento della società. Perché non sia quest'ultima eventualità a prevalere è necessario che la classe che ora subisce, da sola, assieme soltanto a parte della piccola borghesia, gli effetti della crisi, quella lavoratrice, si organizzi e ritrovi gli strumenti per una lotta efficace all'attuale sfruttamento, non solo nel proprio interesse di classe, ma di quello dell'intera umanità.
Mai come oggi vale l'appello di Rosa Luxemburg: “socialismo o barbarie”.
Nello spot una ragazzina di nome Giulia parla della crisi: “ultimamente tutti parlano di crisi io sono ottimista forse perché a me bastano le cose semplici”.
Un buonismo ingenuo dalla voce innocente di una ragazzina per mascherare un messaggio culturale. Ovvero la “soggettività” della crisi, che sarebbe dovuta non ai meccanismi del sistema economico ma alla psicologia individuale. La crisi la subirebbe chi non si accontenta delle “cose semplici” (una delle quali sarebbe la Coca Cola). La ragazzina invece dichiara di preferire “andare in bici che in una super macchina andare in vacanza dalla nonna, più che in un resort”. In questo modo la multinazionale suggerisce in modo apparentemente ingenuo e banale (come vogliono apparire tutti i messaggi dell'industria culturale e della propaganda mediatica) quella che sarebbe la soluzione della crisi: prodotti più “semplici”, meno costosi. Beni di consumo di massa, quali appunto la nota bevanda sponsorizzata. Vorrebbe contrapporre quindi a un modello di consumo di lusso, un modello di consumo massificato, basato sulle merci alla portata del consumatore medio. La crisi è quindi, secondo una teoria purtroppo ampiamente diffusa, un prodotto dell'“avidità”. Se siete sul lastrico è solo colpa vostra, perché vuol dire che avete voluto troppo. Ecco il messaggio che si vuole trasmettere. Ma questo è un modo per nascondere la vera natura della situazione economica e delle sue cause reali. Quasi che subire gli effetti della crisi fosse dovuto esclusivamente allo “spendere troppo” di chi la subisce. Ma questa idea confonde carnefici e vittime. Solo a volte le categorie degli “scialacquatori” e degli “indebitati” coincidono, ma in genere questo non avviene. È difficile pensare che un operaio abbia mai potuto solo pensare di potersi permettere “una supermacchina” o “un resort”, o pasteggiare con caviale e paté. La maggior parte dei lavoratori, dei pensionati e dei risparmiatori a questi lussi non pensa neanche. Essi sono invece riservati a un elite privilegiata (come i manager della Coca Cola, verrebbe da dire!) che è quella che spende in prodotti di lusso, che è quella che ha permesso l'indebitamento di banche e imprese, che è quella che ci ha portato su questa crisi. Sono permessi a una fascia di classe media arricchita, portata momentaneamente sulla cresta dell'onda, illusa che questo successo fosse permanente.
La pubblicità invece scarica la colpa sui ceti medio-bassi dicendo, con apparente buon senso, che per superare la crisi basta bere Coca Cola, basta “accontentarsi” dei prodotti “genuini”, quasi che la Coca Cola sia paragonabile al “ragù della mamma”.
In realtà ai “creativi” di questo spot bisognerebbe far sapere che la maggior parte delle persone si “accontenta” già da un bel po' di tempo, già da prima della crisi, e che la crisi li ha indotti a rinunciare anche a quei beni essenziali e minimi per una famiglia. Altro che “resort” e “supermacchina”!
Lo spot veicola un messaggio propagandistico che spesso abbiamo sentito dalla elite al governo dell'economia e dello Stato: “ottimismo”, la crisi è un fatto soggettivo dovuto a cause soggettive.
Ma a tutte le migliaia di lavoratori che perdono il posto non si può dire che i loro problemi derivano dall'aver sbagliato a fare la spesa.
Questo genere di comunicazione è al servizio non solo di un prodotto particolare, ma dell'intero sistema consumistico che induce al consumo di massa. Così si spiega lo specchietto per le allodole dei prodotti di lusso (che in realtà occupano una fetta limitata e poco significativa del mercato), inseriti per distrarre il pubblico e dare una parvenza di intento “critico”, di “pubblicità progresso”. Ma il vero scopo è quello di indurre a consumare. Consumare prodotti di massa, certo. Proprio quelle merci prodotte in abbondanza al di là di ogni effettiva necessità e su cui si basa il sistema capitalistico. Il vero scopo è, ancora una volta, quello di consumare di più: consumate prodotti di massa purché consumiate. Continuate a fare quello che noi abbiamo sempre voluto che voi facciate. Ma come consumare, verrebbe da chiedere, se la crisi ha falcidiato i risparmi e i salari delle persone? Forse attraverso quello stesso indebitamento che la pubblicità finge di criticare?
Questa pubblicità in realtà col suo ostentato “semplicismo” vuole riproporre sotto altre vesti la solita chiave di lettura che conviene alla classe dominante: la crisi non è causata da fattori oggettivi e strutturali al sistema economico stesso che noi proteggiamo, ma a comportamenti individuali di cui noi non siamo responsabili. In altre parole è colpa vostra. Questo è ciò che si vuole comunicare, inducendo nel pubblico un latente senso di colpa che lo renderebbe vulnerabile alla propaganda delle merci.
Ma questa è una lettura del tutto fuorviante e completamente priva di fondamento scientifico. La crisi non è determinata da fattori individuali o addirittura psicologici (come vorrebbero far credere i cantori dell'“ottimismo”) ma dalla struttura stessa della società capitalistica che crea sempre più bisogni ma poi elimina la possibilità materiale di soddisfarli, di soddisfare persino quelli più essenziali. Di qui nasce la “finanza creativa” e tutte le annesse conseguenze.
In un sistema che ha bisogno di produrre sempre di più è necessario consumare sempre di più. Nello stesso tempo però per aumentare la produzione bisogna abbassarne i costi e quindi tagliare salari e stipendi, ma così facendo si tagliano le basi stesse del consumo, ovvero il potere di acquisto dell'utente finale. E allora per cercare di rimediare, attraverso illusioni finanziarie, si crea un consumo artificiale, senza una reale base materiale, favorito dalle banche e dagli istituti di credito, che è il presupposto per il crollo dell'intero sistema.
Per arginare questo crollo intervengono i governi sostenendo le aziende e le banche, produttori e finanziatori, cioè proprio coloro che sono la vera causa della crisi. Invece gli interventi a favore delle vittime, cioè i lavoratori, sono radi e insufficienti: proprio loro sono il vero “ventre molle” su cui scaricare le contraddizioni del sistema. Ma indebolendo i salari, indebolendo il risparmio, si indebolisce il consumo e l'economia intera. E si ricorre così, in un “circolo vizioso”, ancora ad “artifici” e agli appelli al consumo. Però questo non elimina la radice del problema, semplicemente ne rinvia le manifestazioni sintomatiche che compariranno con ancor maggiore vigore in futuro.
In altre parole sono poste le basi non soltanto di una crisi passeggera, ma del modello stesso di società, un modello “insostenibile”, perché genera delle contraddizioni irresolubili se non attraverso l'abbattimento di quel sistema stesso.
Ciò non significa naturalmente che si tratti di un processo rapido. Potrebbero volerci secoli, ma la tendenza è già da ora chiara e delineata e segnerà progressivamente la fine dell'attuale sistema di produzione, o attraverso un superamento dello stesso in favore di uno nuovo e più equo, oppure attraverso il collasso traumatico e il conseguente imbarbarimento della società. Perché non sia quest'ultima eventualità a prevalere è necessario che la classe che ora subisce, da sola, assieme soltanto a parte della piccola borghesia, gli effetti della crisi, quella lavoratrice, si organizzi e ritrovi gli strumenti per una lotta efficace all'attuale sfruttamento, non solo nel proprio interesse di classe, ma di quello dell'intera umanità.
Mai come oggi vale l'appello di Rosa Luxemburg: “socialismo o barbarie”.
Sembra che l'abbia scritta Calderoli.
RispondiEliminaBella analisi.
Da Pisano lasciamo anche aggiungere una nota ironica: Giulia non potrebbe mai vivere a Pisa ... nella mia città i bambini con il ragù della mamma bevono Chianti e non certo coca cola ... (dal mio blog non politico Appunti di vita)
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