mercoledì 10 giugno 2009

Si riparte. In basso a sinistra

Dopo il miglioramento che la sinistra, e in particolare i comunisti, ha fatto registrare alle europee e la delusione delle amministrative è giunto il momento del “Che fare?”.
Prima di partire con progetti elettoralisti di alleanze tattiche sarebbe meglio interrogarsi sulla lezione che si può trarre dalle urne.
La sconfitta dell'“estremismo unitario”
Per molto tempo ha prevalso a sinistra l'idea della priorità dell'unione a tutti i costi di tutte le forze non solo di sinistra, ma anche solo vagamente progressiste e a volte persino conservatrici.
Questa teoria ha avuto la sua applicazione negli anni del governo Prodi dove c'era una coalizione che andava da Rifondazione a Mastella.
L'insuccesso del governo Prodi è talmente palese ormai a tutti da rendere inutile spiegarlo.
In sintesi il governo Prodi ha perso perché non ha voluto e non ha saputo scegliere: non ha scelto tra la sinistra e il centro, tra una politica di redistribuzione in favore delle classi popolari e un conservatorismo opportunista di scuola mastelliana. Il risultato è stato che a scegliere sono stati i poteri forti e ciò ha causato lo scontento giustificato della base sociale.
A distanza di un anno c'è chi vuole riproporre quella stessa esperienza semplicemente passando una mano di vernice sulla ruggine abbondante.
Costoro hanno proposto un'unione fittizia da cartello elettorale di tutte le forze a sinistra del PD, o che almeno si dicono tali. Questi individuano il vero problema nella “divisione” della sinistra. Ma per “sinistra” intendono, più che una forza politica reale, operante concretamente sul territorio, una categoria dello spirito. Sinistra e Libertà ha proposto un aggregato indistinto, di cui non si comprende bene la linea politica, incapace di una sintesi originale e nello stesso tempo sprovvista di ogni storia che si è deciso di dimenticare.
Hanno dimenticato però il fallimento della Sinistra Arcobaleno alle elezioni politiche. Anche in quel caso si volle creare una sinistra non meglio specificata e il risultato si è visto.
Le europee invece hanno affondato questa linea politica che tende ad unire tutto e tutti. Infatti le due liste della sinistra, andando separate, hanno più che raddoppiato i consensi di un anno fa. Come non si accorgono gli “estremisti unitari” di questo semplice verdetto?
Il problema è che si sono scambiati i mezzi e i fini. Il fine non è quello di unire la sinistra, ma di far sì che la sinistra realizzi una trasformazione della società a vantaggio della classe lavoratrice. L'unità è semmai solo un mezzo per questo obiettivo. Quindi unirsi va bene, ma finché questa unione non comprometta il progetto politico di trasformazione radicale. Diluire la componente antiliberista di parte della sinistra con quella che invece si pone acriticamente di fronte all'economia di mercato vuol dire diluire l'ideale e abbandonare di fatto ogni modello alternativo di società, inseguendo così il riformismo moderato che è stato sconfitto in tutta Europa.
Al contrario l'unificazione deve partire da un'idea chiara di società e da un progetto politico ben delineato. Perciò non si può subordinare la componente antiliberista e anticapitalista a tale unificazione, altrimenti quest'ultima non produrrà nessun risultato apprezzabile.
Bisogna invece spingere per unire tutte le forze della sinistra anticapitalista ed è su questo piano che si poneva la lista di Ferrero, Diliberto e Salvi.
La sconfitta dell'“estremismo identitario”
Il deludente risultato delle amministrative, dove la sinistra anticapitalista e di alternativa è andata divisa in alcune zone e l'incoraggiante risultato delle europee dove invece si è unita, e la sconfitta, preannunciata, del Partito Comunista dei Lavoratori che ha scelto di non appoggiare la Lista Comunista e di correre da solo, testimoniano come, se da un lato è stata bocciata la linea dell'unione a tutti i costi, dall'altro è stato parimenti respinto il velleitarismo della divisione fondata sul rancore. Laddove si sprecano tempo ed energie per rinfacciarsi le scelte passate si perde inevitabilmente. Il PCdL di Ferrando ha speso la campagna elettorale a criticare l'appoggio della sinistra al governo Prodi. Critiche a volte anche condivisibili, ma che finiscono per attestarsi su una posizione di totale chiusura, peraltro sulla base di motivazioni attinenti al passato e non certo al presente. La scelta di Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani di non ripetere gli errori del passato e di non cercare alleanze impossibili con forze politiche tendenzialmente moderate che negli anni di governo hanno tradito il programma del centrosinistra e spostato l'asse della coalizione al centro doveva portare a un ripensamento gli stessi “compagni separati”. Tanto più che il centrosinistra non esiste più e che data la linea estremamente moderata del PD difficilmente sarà riproponibile. Tanto più che adesso al governo c'è una destra tra le peggiori di sempre e non più un centrosinistra deludente.
Quindi respingere la linea delle alleanze di plastica tra forze politicamente distanti e nello stesso tempo quella delle scissioni incomprensibili tra forze che condividono sostanzialmente lo stesso progetto politico dovrebbe essere un impegno per tutti coloro che si oppongono “da sinistra” all'economia di mercato.
La sconfitta dello radicalismo spontaneo
A partire dal 2001 in Italia sono nati tutta una serie di movimenti spontanei di lotta e di protesta sganciati dai partiti della sinistra, formati da comitati, associazioni e liberi cittadini. Ne sono un esempio il movimento anti G8, quello contro la guerra, i comitati contro la TAV e contro le basi militari, quelli contro le discariche. Ma a questi si possono aggiungere anche le lotte operaie contro il modello portato avanti dalle destre. A questi movimenti “eclettici” hanno offerto il loro contributo le forze della sinistra politica, il mondo sindacale, i centri sociali.
Il successo territoriale di questi movimenti è stato notevole. Sono riusciti a coinvolgere buona parte della popolazione locale e ad aggregarla attorno alla protesta. Le istituzioni locali, quando anche non nazionali, anche se con fastidio, hanno dovuto fare i conti con questo fenomeno.
La loro forza è stata la presa sul territorio ma anche la tendenza a toccare temi di interesse globale, la necessità di interrogarsi, a partire da un problema o da un avvenimento locale, sul genere di società desiderabile. In un'epoca in cui si tende ad escludere e a bollare come utopico qualsiasi tentativo di costruzione di un modello sociale alternativo, questo è stato un merito notevole.
L'autonomia di questi movimenti dai partiti, anche da quelli “di alternativa”, e dalle loro logiche tattiche di coalizione che allora imperavano in tutto il panorama politico è stata la loro forza ma anche la loro debolezza.
L'isolamento in cui si sono trovati, non tanto per colpa loro quanto per incapacità della sinistra politica di fare da “ponte” tra di loro, ne ha causato a lungo andare la dispersione e di conseguenza l'estinzione. Anziché cogliere l'occasione per creare una rete di fuochi di protesta e porre le basi per una sorta di “guerriglia pacifica” che portasse l'assedio dalle succursali al centro degli interessi dominanti, ci si è limitati a una partecipazione puramente rappresentativa ma nei fatti scarsamente incisiva. Così si è avuto un dissenso diffuso ma “a macchia d'olio” formato da tante piccole “eruzioni” isolate e scollegate tra di loro. È mancato un coordinamento che fosse capace di dare ai vari movimenti quella visione organica di sistema che sferrasse il suo attacco contro la struttura stessa dell'ordine sociale.
Il movimento studentesco dell'“onda” nato dall'opposizione alla riforma Gelmini ha tentato di incontrarsi con i sindacati e il mondo del lavoro per uscire da ogni possibile settarismo e far convergere la protesta attorno a un fulcro comune.
Tuttavia i tentativi non hanno avuto particolare seguito e sembra che si sia tornati alla indifferenza reciproca tra le varie “anime”.
Il mondo del lavoro e la classe operaia che un tempo erano il cuore di tutte le altre lotte tendono anch'essi a “specializzarsi” focalizzandosi attorno a rivendicazioni locali perdendo ogni rapporto con i fini generali.
A segnare la battuta di arresto della stagione del dissenso è stata la mancanza di un progetto politico di trasformazione sociale di ampio respiro. Ha prevalso una linea, pur contro le intenzioni di molti partecipanti, “post-moderna” fatta di tante singole lotte separate l'una dall'altra, magari anche con la capacità di far valere alcune rivendicazioni di base, ma del tutto inadeguate nel modificare i rapporti sociali. È mancata una “grande narrazione” capace di sintetizzarle dialetticamente in un progetto globale.
Obiettivi
Recuperare la riflessione teorica e la coscienza di classe
Per imparare da questa “sconfitta silenziosa” dei movimenti di base e della classe lavoratrice passata inosservata presso i dirigenti della sinistra occorre prendere atto della loro potenziale continuità (perché le diverse rivendicazioni hanno le stesse radici) che è stata tradita dalla loro effettiva dispersione.
Tutte le rivendicazioni hanno alla base l'aggressività del Capitale nel mondo del mercato globale, un'aggressività che è causa di guerre (Iraq e Afghanistan in particolare) disastri ambientali (TAV, discariche) devastazione dei territori (inquinamento industriale e abusivismo edilizio) dirigismo autoritario persino dichiarato da parte delle elites internazionali (G8) definanziamento della spesa pubblica sociale che non sia favorevole al profitto (Riforma Gelmini) e naturalmente precarizzazione del lavoro (Legge 30).
Bisogna quindi innanzitutto comprendere la comune radice di questi mali. Serve perciò una riflessione teorica all'altezza dei tempi che si assuma l'incarco di studiare da un lato le connessioni strutturali tra le diverse contraddizioni della società e il conseguente malcontento popolare, dall'altro le contromisure messe in atto dal sistema che divide e disperde, quando non riesce integrare, queste forme di opposizione. Bisogna affrontare quella che è la vocazione del marxismo: riuscire a sintetizzare l'azione concreta in risposta ai bisogni particolari immediati hic et nunc con il bisogno sociale universale di emancipazione e di rovesciamento dell'ordine costituito.
Per farlo è necessario porre di nuovo al centro la riflessione intellettuale nello sforzo di declinarla a seconda di quelle che sono le contingenze storiche.
Tuttavia non ci si deve illudere che questa consapevolezza intellettuale sia di per sé sufficiente per ricominciare una lotta su basi solide. Con essa deve procedere di pari passo l'avanzamento della consapevolezza da parte delle masse della condizione e della ragione del loro sfruttamento, la coscienza di classe. Senza coscienza di classe non si dà nemmeno lotta di classe. E senza lotta di classe non si dà nessuna lotta capace di intaccare i rapporti sociali.
Non bisogna neanche, però, cadere nell'errore di credere che questa consapevolezza delle masse sia bastante a condurre una lotta efficace intorno a un progetto politico coerente. Si devono evitare da un lato l'intellettualismo di chi crede che un'intellighenzia di sinistra avanzata possa da sola “dettare la linea” a tutti gli altri che si limiterebbero a seguire ciecamente; dall'altro l'anti-intellettualismo di chi si illude che l'analisi sistematica e scientifica della società non sia utile alla lotta.
Le due componenti, ricerca teorica dell'intellighenzia di sinistra e coscienza pratica delle masse, non sono separate, ma interagiscono reciprocamente. Il progresso nella ricerca teorica è in grado di condizionare il pensiero della base sociale di riferimento e viceversa la consapevolezza dei lavoratori e delle classi popolari che sperimentano tutti i giorni l'oppressione non può venire ignorata dalla teoria.
La convergenza delle due sfere deve avvenire in ogni momento: perciò l'elaborazione teorica non può limitarsi a stare rinchiusa nelle università o sugli scaffali delle librerie, ma deve essere strumento di lotta, deve essere accessibile a coloro verso i quali è destinata. I libri, come è avvenuto per il Manifesto del partito comunista, devono poter essere letti da tutti e spiegati a chiunque.
Gli intellettuali, nello stesso tempo, devono confrontarsi con le esigenze e i bisogni anche immediati delle lotte particolari, senza per questo dover rinnegare una prospettiva sistematica.
Ritornare sul territorio e nei luoghi di lavoro
Attraverso la coscienza collettiva è possibile tornare ad affrontare quelle sfide che il momento storico propone senza la debolezza di coordinamento e con dei mezzi ideologici un po' meno naif.
Ma la dialettica tra lotta particolare ed emancipazione universale deve avvenire anche in concreto, tramite la lotta e l'organizzazione della lotta.
Occorre perciò superare quel divario storico che esiste tra la dirigenza dei partiti della sinistra comunista e di alternativa e la loro base sociale. Questo divario ha permesso che i primi si vedessero come i fautori esclusivamente delle tendenze universali di emancipazione e i secondi come esclusivamente interessati alle rivendicazioni di impatto immediato. La prima prospettiva è causa della gestione verticista, la seconda dell'atteggiamento spontaneista.
La dirigenza politica credendosi la sola interprete affidabile del comunismo, del socialismo, del modello alternativo di società, si è vista autorizzata a sacrificare le rivendicazioni particolari in favore dell'ideale finale. Questo ha fatto sì che venissero intraprese tattiche di compromesso con il potere economico e imposte queste scelte alla base. Paradossalmente ciò ha causato proprio il contrario, cioè il venir meno del “fine” di fronte ad opportunismi tattici sempre più asfissianti. Si è perso il contatto con le rivendicazioni locali e parziali e ciò veniva giustificato nel nome della necessità storica e delle “magnifiche sorti e progressive”. Ciò ha determinato che non si centrassero neanche quegli obiettivi parziali della lotta a vantaggio di compromessi sempre più a ribasso. Ciò si è riscontrato negli anni della partecipazione della sinistra al governo Prodi e nell'alleanza con le forze moderate dove al “radicalismo” nella teoria faceva seguito un “moderatismo” nella prassi. Questa perdita di contatto con la base e con i suoi bisogni immediati è all'origine della sconfitta storica della sinistra nel 2008.
Dall'altra parte però, presso le classi popolari, il bisogno di difendere i propri interessi hic et nunc di fronte all'avanzata del liberismo e alla deregolamentazione dei mercati ha determinato un atteggiamento tutto sbilanciato nei confronti di questi interessi e scarsamente proiettato al rovesciamento dello status quo, che pure sarebbe il modo migliore di farli valere. La delegittimazione di ogni idea alternativa a quelle dominanti da parte degli apparati mediatici e la scarsa incidenza delle forze politiche che si richiamano a queste idee sul terreno delle rivandicazioni particolari ha prodotto un allontanarsi dei lavoratori e delle classi sfruttate da queste stesse idee e la rinuncia ad ogni prospettiva di superamento dei rapporti sociali di produzione attualmente in vigore. Si è sacrificato l'“ideale” a vantaggio delle battaglie combattute giorno per giorno, separatamente e indipendentemente l'una dall'altra, senza nessun collegamento, perché l'unico collegamento possibile, il superamento dei rapporti di produzione in vigore appunto, è stato rimosso. Così queste singole lotte si sono svolte senza guardare minimamente a quella che è la missione storica delle forze sociali e politiche progressive. Astrattamente staccate dalle esigenze universali, le rivendicazioni si sono sentite libere da ogni condizionamento esterno alle singole rivendicazioni stesse. E questo ha permesso un'azione “anarchica” non organizzata e non coordinata in vista di un fine ultimo e perciò in sostanza velleitaria. Di conseguenza si è avuto un atteggiamento opposto a quello della dirigenza della sinistra: in questo caso ad un “moderatismo” ideologico ha fatto riscontro un “radicalismo” pratico.
Entrambi questi approcci sono privi di sbocchi. L'uno conduce all'incasellamento della sinistra nella trappola del gioco di coalizione e al sostanziale immobilismo parlamentare in nome di una “missione storica” che di fatto viene tradita. L'altro alla protesta furente ma velleitaria perché priva di respiro storico e politico.
Solo ricostruendo il rapporto tra la dirigenza della sinistra e la sua base è possibile superare questa aporia in cui sembra si sia finiti, perché si può ritrovare la sintesi tra le due esigenze, l'emancipazione universale e la rivendicazione particolare, senza sacrificarne una delle due, che condannerebbe anche l'altra, senza dover scegliere tra l'opportunismo tattico e il ribellismo sterile, ma trovando la giusta misura di tattica politica, perseguimento degli interessi immediati dei lavoratori e azione per la trasformazione della società nel suo complesso che è e deve rimanere comunque lo scopo fondamentale.
In questa chiave, quindi, deve essere letta la ricostruzione del radicamento territoriale di una sinistra di alternativa efficace, capace di porsi come punto focale delle lotte dei movimenti locali e dei lavoratori, capace di trovare una sintesi, un interesse comune e originale delle diverse manifestazioni di uno stesso fenomeno: l'opposizione al sistema di sfruttamento di classe.
Non è sufficiente sventolare una bandiera rossa in un corteo contro l'installazione di una base militare, né può bastare fare volantinaggio davanti alle fabbriche.
Il punto è trovare una sintesi, teorica e pratica, tra il sostegno ai movimenti locali e la presenza sul territorio e la “missione storica” della sinistra.

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