venerdì 31 luglio 2009

Il coraggio di una donna in lotta



È una donna sudanese che dovrebbe insegnare a tutta la nostra classe politica il significato dell'impegno civile:

Rinviato il processo della giornalista Lubna Ahmad Hussein che ha rinunciato all'immunità
Fermata con altre donne in un locale. Ha chiesto ai colleghi di assistere alla fustigazione
Sudan, rischia condanna a 40 frustate
perché indossava i pantaloni

KHARTOUM - E' stato rinviato al 4 agosto il processo alla giornalista sudanese Lubna Ahmad Hussein che rischia 40 frustate per aver indossato i pantaloni, tenuta considerata "indecente" secondo i canoni islamici e che tre settimane fa è costata una pena analoga ad altre dieci donne vestite allo stesso modo che si trovavano con lei in un locale a Khartoum.

"Le autorità mi hanno detto che devo comparire davanti al giudice - ha annunciato ieri la giornalista che scrive per il giornale di sinistra Al-Sahafa e lavora per la missione delle Nazioni Unite in Sudan (Unmis). "E' importante che la gente sappia quello che accade", ha aggiunto la donna chiedendo ai colleghi di essere presenti quando sarà frustata. "Mi daranno 40 frustate e mi imporranno una multa di 250 sterline sudanesi", circa 80 euro, ha aggiunto.

Stamani la corte l'ha convocata per chiederle se intendeva avvalersi dell'immunità o rinunciarvi e andare a processo. La giornalista ha detto di voler dare le dimissioni da funzionaria dell'Onu, rinunciare quindi all'immunità ed essere processata: l'udienza è stata fissata al 4 agosto.

La giornalista era stata fermata dalla polizia il 3 luglio mentre si trovava al ristorante insieme ad altre donne perché indossavano i pantaloni. Dieci di loro erano state convocate dalla polizia due giorni più tardi e ciascuna di loro aveva ricevuto dieci frustate. Lei e altre due sono state segnalate alla magistratura per essere processate. In vista dell'applicazione della sentenza, la giornalista sudanese ha distribuito 500 inviti a suoi colleghi e politici del paese affinché assistano di persona alla fustigazione.

La Repubblica, 29 luglio 2009.



Questa donna, ha rinunciato all'immunità correndo il rischio di essere frustata per una legge ingiusta. Aveva tutto il diritto di ricorrervi e se lo avesse fatto sarebbe stato perfettamente comprensibile. Eppure ha deciso di affrontare coraggiosamente l'ingiustizia. Come la legge difende un privilegio, lei ha deciso di rinunciare ad ogni minimo privilegio, anche in una situazione estrema come la sua.
In Italia c'è un Presidente del Consiglio che ha fatto una legge appositamente per non essere giudicato, nonostante non ne avesse alcun diritto, nonostante la magistratura avesse tutto il diritto di porlo sotto inchiesta e nonostante rischiasse una condanna assai meno severa di quella della donna sudanese. Quest'ultima, poi, lotta per una causa giusta, il nostro capo di governo, invece, difende i suoi egoistici interessi personali.
Ognuno ne tragga le sue conclusioni.

mercoledì 29 luglio 2009

Le radici cristiane della finanza



Ieri è stata presentata l'enciclica di Ratzinger Caritas in Veritate dal cardinale Tarciso Bertone alla presenza del Presidente del Senato Schifani, in occasione dei cinque anni dal discorso di Ratzinger sulle “radici cristiane” dell'Europa.
Il discorso del Segretario di Stato Bertone è un monologo tragicomico, che fa la morale alla finanza spregiudicata, in nome di chi a quella stessa finanza ha contribuito, partecipato e attinto ampiamente.

“La Caritas in veritate ci dice, invece, che fare impresa è possibile anche quando si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all'azione da motivazioni di tipo pro-sociale. È questo un modo concreto, anche se non l'unico, di colmare il divario tra l'economico e il sociale dato che un agire economico che non incorporasse al proprio interno la dimensione del sociale non sarebbe eticamente accettabile, come è altrettanto vero che un sociale meramente redistributivo, che non facesse i conti col vincolo delle risorse, non risulterebbe alla lunga sostenibile: prima di poter distribuire occorre, infatti, produrre.” (
Osservatore Romano).

Se è possibile perseguire “fini di utilità sociale” e il
business nello stesso tempo, fare il buon samaritano a Wall Street, Ratzinger e Bertone dovrebbero spiegarci perché la Chiesa che lo predica tanto non lo mette in pratica. Nella finanza vaticana, quando mai “l'economico incorpora al proprio interno la dimensione sociale”? Eppure si può dire che il Vaticano non ha certo problemi di “vincoli di risorse”, dato gli ingenti finanziamenti, pubblici e privati, e il controllo di numerose società di credito internazionali di cui usufruisce.

“Occorre superare la concezione pratica in base alla quale i valori della dottrina sociale della Chiesa dovrebbero trovare spazio unicamente nelle opere di natura sociale, mentre agli esperti di efficienza spetterebbe il compito di guidare l'economia”. (
ibid.).

Ora al di là del fatto che bisognerebbe ricordare a Bertone chi è che diceva che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli, sembra quasi che la Chiesa per lungo tempo abbia praticato una visione ascetica della vita, lontana dal mondo dell'economia e dal guadagno facile.
Eppure essa ha sempre controllato importanti fette del capitalismo italiano e internazionale, ponendosi come uno dei principali protagonisti nella gestione del denaro.
Fin dall'unità d'Italia, anche quando il governo della “destra storica” aveva cercato di sradicare il potere della Chiesa dalla società italiana, il Vaticano era sempre riuscito a conservare ricchezze sterminate. Il governo sabaudo aveva venduto i beni ecclesiastici, ma questi furono riacquistati dagli stessi monaci e prelati (
homolaicus) che dopo la chiusura dei conventi si convertirono al profano mondo degli affari, suggerisco in proposito la lettura dei Viceré, l'ottimo romanzo di Federico De Roberto.
Un governo liberale dovette addirittura richiamare i pii uomini di Chiesa ad abbandonare le speculazioni immobiliari per investire in attività industriali (
ibid.). Già allora c'era da domandarsi dove fosse finita la tanto osannata “dottrina sociale” della Chiesa.
Durante il fascismo la posizione egemonica della Chiesa si consolidò grazie alle varie esenzioni fiscali e alle donazioni da parte dello stato italiano. Una posizione che il Concordato del 1984 avrebbe lasciato sostanzialmente immutata (
ibid.).

“Prendo ora in considerazione uno dei temi presenti nell'enciclica che mi pare abbia suscitato un certo interesse pubblico per la novità che rivestono i principi di fraternità e di gratuità nell'agire economico. "Lo sviluppo, se vuole essere autenticamente umano", dice Benedetto XVI , deve "fare spazio al principio di gratuità" (n. 34). Servono "forme economiche solidali"” (
cit.).

Al principio di gratuità è molto legata se si considera che usufruisce
gratuitamente dei servizi di approvvigionamento idrico e di scarico, grazie alle tasse pagate dai cittadini romani (cit.)
Gratuito è anche la valanga delle ricchezze che si trasferisce periodicamente dalle casse dello stato a quelle del Vaticano, grazie a un perverso meccanismo come quello dell'otto per mille che fa sì che vada alla Chiesa il 90% di questa tassa, nonostante solo un'esigua minoranza dei cittadini italiani scelga di destinarlo alla Chiesa cattolica (
atei.it). Secondo questo geniale meccanismo anche la parte dell'otto per mille di coloro che non fanno alcuna scelta sarà divisa nella stessa proporzione di coloro che hanno operato una scelta (ibid.).
A ciò dobbiamo aggiungere l'esenzione dall'Ici, l'obolo di San Pietro e l'assegno di 2,5 milioni che ogni viene versato al Papa (
ibid.). Tutto questo, ovviamente, a titolo gratuito.

“se si dimentica il fatto che non è sostenibile una società di esseri umani in cui viene meno il senso di fraternità e in cui tutto si riduce a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti o ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci si rende conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. La Caritas in veritate ci aiuta a prendere coscienza che la società non è capace di futuro se si dissolve il principio di fraternità” (
cit.).

Alle “transazione basate sullo scambio di equivalenti” la Chiesa ha fatto molto ricorso, come viene descritto dal libro di Giuseppe Nuzzi,
Vaticano s.p.a., “Fondazioni di suore inesistenti alle quali erano intestati conti su cui circolavano fiumi di denaro; operazioni finanziarie più che discutibili e spregiudicate mascherate da opere di carità; carriere politiche, ecclesiastiche e finanziario costruite su operazioni dai contorni sbiaditi, per non dire tenebrosi” (
varese news).

“Il secondo fattore causale della crisi è la diffusione a livello di cultura popolare dell'ethos dell'efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un verso, ciò ha finito col legittimare l'avidità - che è la forma più nota e più diffusa di avarizia - come una sorta di virtù civica: il greed market che sostituisce il free market. Greed is good, greed is right ("l'avidità è buona; l'avidità è giusta"), predicava Gordon Gekko, il protagonista del celebre film del 1987, Wall Street.” (
cit.).

L'avidità. Sempre condannata pubblicamente dalla Chiesa. Ma gli scandali vaticani, come quello del Banco Ambrosiano, che vedeva esponenti delle alte gerarchie ecclesiastiche collaborare con la mafia attraverso Michele Sindona, con la P2 e con i servizi segreti (
cit.) non sono un caso di normale “avidità” quale può essere quella di un comune agente di borsa, ma vanno oltre. Riguardano la gestione machievellica del potere totalmente sganciata da qualsiasi scrupolo morale.
Questa “avidità” del Vaticano non rigurda solo il passato se si considera che Giovanni Paolo II sostituì Marcinkus col suo collaboratore De Bonis (
ibid.)e che Angelo Caloia, banchiere dello IOR ha denunciato in un libro una “Caporetto etica” per il Vaticano, parlando di tutti i coinvolgimenti della “finanza bianca” negli scandali degli ultimi anni, da Capitalia a Banca Intesa (finanza bianca).

“Penso alle banche del territorio, alle banche di credito cooperativo, alle banche etiche, ai vari fondi etici. Si tratta di enti che non solamente non propongono ai propri sportelli finanza creativa, ma soprattutto svolgono un ruolo complementare, e dunque equilibratore, rispetto agli agenti della finanza speculativa. Se negli ultimi decenni le autorità finanziarie avessero tolto i tanti vincoli che gravano sui soggetti della finanza alternativa, la crisi odierna non avrebbe avuto la potenza devastatrice che stiamo conoscendo.” (
cit.).

Non so se per “finanza alternativa” Bertone intenda anche quella dello IOR rintanato in Vaticano e che ha deciso di non aderire alle norme sulla trasparenza dei conti (
cit.). Lo IOR opera attraverso due “bracci”, la Deutsch Bank e il gruppo Untes (cit.). Sicuramente garantisce ai propri clienti un tasso molto conveniente al 12 %.
Non so se intenda le varie società “offshore” attraverso le quali evade il fisco, o il controllo delle Isole Cayman, noto paradiso fiscale (
cit.).
Sicuramente lo Stato italiano è stato molto generoso, attraverso le tasche dei suoi contribuenti ignari, nel rimpinguare le tasche già gonfie di chi fa giuramento di povertà. Non altrettanto si può dire del Vaticano nei confronti dei cittadini italiani.

“Cosa comporta, a livello pratico, l'accoglimento della prospettiva della gratuità entro l'agire economico? Risponde Papa Benedetto XVI che mercato e politica necessitano "di persone aperte al dono reciproco" (Caritas in veritate, nn. 35-39)” (
cit.).

Sicuramente questa pratica della “gratuità” la Chiesa non l'ha mai messa in atto. E lo sanno bene i romani sfrattati dalla “finanza alternativa” della Curia (
La Stampa).
Dove sono finite allora tutte queste “persone aperte al dono reciproco”? Dov'è tutta questa moralità nell'agire economico? Quando mai, le gerarchie ecclesiastiche, avrebbero congiunto la solidarietà all'economia se poi giunge a sfrattare i propri affittuari per operare qualche speculazione immobiliare? Dov'è sarebbe quello “sviluppo autenticamente umano”? Nei conti delle società “offshore”? Oppure nei finanziamenti del Vaticano ai regimi fascisti di tutto il mondo, come è ormai ampiamente documentato e storicamente provato?
Max Weber, il grande sociologo, suggeriva che l'etica protestante favorisse lo sviluppo del capitalismo, al contrario del cattolicesimo. Forse rimarrebbe sorpreso nel vedere quanto la Chiesa cattolica abbia surclassato quella protestante in questo ambito.



NOTA. Per quanto riguarda le collusioni tra Chiesa e regimi autoritari c'è molto materiale, suggerisco
Pinochet e il Vaticano sul coinvolgimento del Vaticano nel sostegno alla dittatura cilena e Il cardinale Pio Laghi sui rapporti della Chiesa con il regime argentino.

sabato 25 luglio 2009

La società dei pericoli


Premetto che quanto sto per dire potrebbe generare reazioni emotive contro il sottoscritto. Alcune persone non sono capaci di affrontare certe questioni con la dovuta serenità, e, quando ci si permette di mettere in discussione certi dogmi sociali, più che difendere la propria posizione insultano l'avversario. Se siete tra queste vi avviso che qualunque commento possa costituire insulto o offesa verso il sottoscritto o verso altri che partecipano alla discussione sarà cancellato. Questo per evitare che il discorso possa essere fatto deviare producendo un clima di tensione inadatto a qualsiasi riflessione lucida.
Prendo le mosse da una notizia che lessi per la prima volta qui qualche giorno fa.
Riporto di seguito il fatto:


“MILANO - Un'assistente sociale di 30 anni è stata arrestata dai carabinieri di Milano con l'accusa di violenza sessuale: ha intrattenuto rapporti sessuali con un ragazzino di 13 anni, che doveva seguire negli studi. A denunciare la donna è stata la madre del ragazzino, che aveva intuito grazie ad alcuni sms come il rapporto tra l'insegnante e l'allievo si fosse trasformato in una relazione. I carabinieri hanno scoperto i due in intimità nell'abitazione del ragazzo. Il Comune di Milano, appresa la vicenda, ha sospeso in via cautelare i rapporti con la cooperativa per la quale lavorava l'educatrice in questione. Il contratto riguardava l'assistenza domiciliare dei minori con disagio psichico.
L'ETA' DEL CONSENSO - Ai carabinieri l'adolescente, che fra poco compirà 14 anni, ha spiegato che i rapporti sessuali avvenivano col suo consenso. La donna però è stata arrestata lo stesso: anche se il minore è consenziente, la legge ritiene violenza sessuale i rapporti con adolescenti che non hanno ancora compiuto 14 anni, e per di più l'età del consenso sale a 16 anni se la persona adulta in causa ha qualche forma di autorità sul minore oppure vive nella stessa casa. Questa norma si applica per esempio a insegnanti, catechisti, educatori, fratelli maggiori, assistenti sociali (come appunto in questo caso), medici, pubblici ufficiali. L'età del consenso sale ulteriormente a 18 anni se il fatto è commesso da un genitore (anche adottivo), da un ascendente, da un convivente di questi ultimi o dal tutore.
SMS RIVELATORI - E' stata la madre dell'adolescente, afflitto da problemi di adattamento, a insospettirsi: ha infatti trovato sul telefonino cellulare del figlio alcuni messaggi sms che inequivocabilmente lasciavano intendere una relazione intima tra lui e l'assistente sociale. Nella giornata di martedì, mentre l'educatrice era nella casa del suo assistito, è così scattato il blitz dei carabinieri, che hanno bloccato la donna in atteggiamenti sconvenienti con il minore.
SOSPESA LA COOPERATIVA - Il Comune di Milano ha deciso di sospendere cautelarmente il contratto di affidamento ai servizi di assistenza domiciliare alla cooperativa Diapason, e ha già annunciato di volersi costituire parte civile nel procedimento che sarà istruito. La cooperativa da anni aveva una convenzione con il Comune di Milano per l'affidamento dei servizi di assistenza domiciliare e recentemente aveva ottenuto l'accreditamento dal settore Politiche Sociali di Palazzo Marino. «Sono sconvolta e addolorata - ha affermato l'assessore alle Politiche Sociali Mariolina Moioli - e ho già dato mandato ai miei direttori di rescindere ogni contratto con la cooperativa, visto che è la cooperativa che fornisce al Comune ogni garanzia sui propri operatori». L'assessore ha inoltre annunciato di essersi già messa in contatto con l'avvocatura di Palazzo Marino per far sì che l'amministrazione possa figurare come parte lesa nel procedimento giudiziario aperto contro l'assistente sociale. «Ho già attivato i servizi sociali - ha concluso Mariolina Moioli - per dare tutto il supporto psicologico alla famiglia del ragazzo».
22 luglio 2009”
(
Corriere della Sera).


Si noti che il ragazzo era consenziente, quindi ha partecipato al rapporto di sua volontà senza subire costrizioni o violenze.
L'assistente sociale però è stata arrestata, perché per la legge italiana il rapporto sessuale di un adulto con un minore è sempre reato se il minore ha un'età inferiore ai 14 anni, indipendentemente se questi è consenziente o meno (
wikipedia).
Ora mi pare che quella sul consenso sia una legge alquanto discutibile. C'è da chiedersi innanzitutto perché l'età sia stata fissata proprio a 14 anni. Sappiamo tutti che oggi gli adolescenti sono molto meno “ingenui” di quello che erano qualche decennio fa ed è veramente difficile pensare che fino a 14 anni non si sia in grado di decidere cosa si voglia e perché, almeno per quanto riguarda le scelte immediate, come il rapporto con un'altra persona. Se a un tredicenne viene chiesto da un adulto di avere un rapporto sessuale, questi può avere due reazioni: accettare o rifiutare. Entrambe queste scelte sono legittime per ciò che concerne egli solo e non coinvolge altri individui (per cui potrebbe non essere in grado di valutare eventuali danni su altre persone). Se vuole un gelato, sarà libero di comprarlo, certo non si può dire che egli non sia in grado di decidere se vuole o no mangiare un gelato. Né che il gelataio lo abbia plagiato per indurlo a comprare il gelato. La madre potrebbe non approvare questa sua scelta e proibirgli di mangiare il gelato perché sa che gli fa male. Ma questo riguarda solo lui e sua madre, non il gelataio. Se il ragazzino va a comprarsi il gelato, la madre non può andare dai carabinieri e pretendere che questi arrestino il gelataio, anche se questi sapeva del divieto della madre.
Certo, la sessualità è una questione molto più delicata di un gelato. Ma il principio è lo stesso. La madre non può pretendere nemmeno che al gelataio venga fatta una semplice multa. Perché dovrebbe pretendere, allora, che la partner sessuale adulta di suo figlio vada in prigione, malgrado questa non abbia commesso violenza alcuna?
Ma, dicevo, della questione anagrafica. Mettevo in dubbio l'età del consenso (cioè “l'età a cui una persona è considerata capace di dare un consenso informato a comportamenti regolati dalla legge, in particolare i rapporti sessuali” (
ibid.) stabilita in Italia a 14 anni. Non in tutti i paesi è uguale. Ad esempio in Francia è 15, in Canada 16, in alcuni zone degli Usa 18, in Tunisia 20. Del resto in Brasile è 13, in Spagna e in Argentina 12, nello Yemen 9 e in alcuni paesi, pochi, non esiste affatto (ivi).
Sia detto en passant che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, in genere l'età è più alta negli stati considerati più “liberali” su queste questioni, come Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Olanda e Francia.
In altre parole, quest'assistente sociale, se fosse vissuta in Brasile, in Spagna, in Argentina, nello Yemen o in molti altri paesi non sarebbe stata arrestata.
Allora mi chiedo: sulla base di quale principio noi stabiliamo che l'età minima del consenso debba essere di 9, 12, 13, 14, 15, 16, 18, 19 o 20 anni? Ci sono naturalmente ricerche in ambito psichiatrico e psicologico che supportano simili decisioni legislative. Ma evidentemente se le decisioni legislative sono diverse, queste ricerche hanno dato esito diverso a seconda di chi le ha condotte (e, presumibilmente, dell'interesse che aveva chi le ha condotte). Quindi questi studi non dovrebbero essere considerati attendibili. A quali di essi dovremmo dare ragione? Certo, i risultati possono variare a seconda dei diversi contesti nazionali. Ma non così tanto, non da 9 a 20 anni, a meno che non si dica che nello Yemen un bambino di 9 anni sia maturo quanto un uomo tunisino di 20 anni, o che un bambino spagnolo di 12 sia più maturo di un diciassettenne della Florida! Viceversa, se le legislazioni non sono supportate da una qualche teoria scientifica, o semplicemente logica, che legittimità possono avere? Non sarebbero giustificate da altro che dalla pura arbitrarietà dei legislatori stessi.
Ma se non si è in grado di stabilire con sicurezza quest'età minima, si ammette implicitamente che la legge possa sbagliare, ovvero che possa mandare in galera un innocente. Eppure uno dei principi fondanti di uno stato di diritto è che tra condannare un innocente e assolvere un colpevole è preferibile quest'ultima eventualità. Nel nostro caso, invece, si fa il contrario: si preferisce condannare un innocente.
Tuttavia non solo è discutibile l'età al di sotto della quale l'espressione del consenso non può essere ritenuta legalmente valida, ma l'esistenza stessa di un'età, quale essa sia, del consenso.
In Italia questa è fissata a 14 anni. Perché allora i ragazzini di 13, 12, 11, 10 anni e via dicendo non possono esprimere un consenso accettato dalla legge? Forse perché non li si ritiene in grado di capire cosa vogliono?
Ma a ben vedere questa è una posizione paradossale e anche pericolosa. Se i minori non sono in grado di capire cosa vogliono, non sono in grado di capire neanche cosa non vogliono. Se non sono in grado di capire se vogliono accettare un rapporto sessuale, non sono neanche in grado di capire se non lo vogliono accettare. Così, non solo la loro dichiarazione dovrebbe essere inutile nel caso in cui dicano di essere consenzienti, ma anche nel caso in cui dicano di non esserlo. Ovvero, se un minore che non abbia ancora raggiunto l'età del consenso dichiara di aver subito violenze sessuali, la sua affermazione non potrebbe essere ritenuta, se vogliamo essere coerenti col principio della legge in questione, legalmente valida, che mi pare un'aberrazione. Lo stupratore verrebbe perseguito comunque, perché per la legge è comunque reato, ma non ci sarebbe alcuna differenza sul piano legale tra uno stupratore e un adulto che ha avuto rapporti con un minore consenziente.
Ipotizziamo che sia stato il minore a sedurre l'adulto; se consideriamo la malizia di molti adolescenti di oggi e il precoce sviluppo fisico non è un'ipotesi del tutto peregrina. Ipotizziamo che l'adulto sedotto sia un insegnante, o come nel caso che abbiamo visto, un assistente sociale. La legge prevede che quando l'adulto ha una qualche autorità sul minore l'età del consenso salga a 16 anni (
wikipedia). Ora immaginiamo una ragazzina di 15 anni fisicamente abbastanza sviluppata, come spesso sono le ragazzine di quest'età, e abbastanza maliziosa, nell'era della televisione e di internet, da fare proposte sessuali. Diciamo che si innamori del suo insegnate e lo induca ad un rapporto sessuale e che l'insegnate accetti. In questo caso entrambi i partner sono consenzienti, entrambi consapevoli di aver dato l'assenso al rapporto sessuale, eppure per la legge l'insegnante andrebbe in prigione.
Ora facciamo un altro esempio. Diciamo che un uomo adulto commetta violenza sessuale su un bambino di 8 anni. Ovvero costringa, o con la forza o col ricatto, il bambino ad avere un rapporto sessuale con lui. In questo caso il bambino rifiuta l'assenso al rapporto sessuale, contrariamente al caso precedente. A qualunque persona di buon senso quest'ultimo caso apparirebbe quantomeno assai più grave del primo, il quale risulta invece quantomeno dubbio.
Eppure per la legge, se vogliamo essere coerenti col suo spirito, i due casi si equivarrebbero. Avendo infatti ambedue i minori un'età inferiore a quella stabilita perché il consenso sia valido, la loro parola non conta. Non conta cioè che abbiano detto di essere favorevoli o contrari all'atto sessuale. Non conta che vi siano stati costretti o che lo abbiano scelto volontariamente. Dunque, legalmente, entrambi gli adulti, a parità di altre condizioni contingenti, attenuanti, aggravanti, ecc., dovrebbero ricevere la stessa identica condanna. Potrebbe valere il principio che nel secondo caso essendo l'età del bambino inferiore al primo caso il reato è più grave. Ma sarebbe un principio estrinseco alla norma che stiamo analizzando. Se entrambi i minori avessero 13 anni, un giudice scrupoloso non potrebbe che condannare entrambi gli adulti, lo stupratore e l'insegnante, alla stessa pena. Anzi, il primo, a seguire la legge, dovrebbe avere una pena maggiorata, perché aveva un'autorità sul minore, quella di essere suo insegnante. Non è che ci voglia molto a capire la paradossale ingiustizia di questa situazione, a causa di una legge del tutto errata.
Si potrebbe pensare che l'età del consenso sia troppo alta e che dovrebbe essere abbassata. Ma non è questo il punto, anche se fosse a 9 anni, il problema rimarrebbe, poiché rimarrebbe l'equiparazione legale tra stupratori e semplici partners sessuali qualora il minore non avesse ancora compiuto i 9 anni.
Obiezioni a questo modo di intendere la questione sono state sollevate già in passato.
In Francia nel 1977 alcuni intellettuali, come Michel Foucault, Louis Althusser e Jacques Derrida hanno sottoscritto una petizione che chiedeva al Parlamento di rivedere le norme su questa materia.
Nel 1978 Michel Foucault, Jean Danet e Guy Hocquenghem parteciparono a un'interessante conversazione radiofonica conosciuta con il titolo “La legge del pudore” (
legge del pudore - wikipedia).
Secondo Foucault sarebbe cominciata nell'800 e proseguita nel '900 una progressiva “psichiatrizzazione della società”, che avrebbe portato a creare e a stigmatizzare la figura dei “pervertiti” (
ibid.).
A ciò corrisponderebbe l'intervento della legge che acquisirebbe così lo scopo non più di condannare l'infrazione della legge, ma colui che la infrange, o per meglio dire, il criminale non è più tale perché infrange la legge, ma infrange la legge perché è criminale. Si va a colpire, quindi, una categoria di persone, il loro stesso modo di essere, e non le azioni, indipendentemente da chi le compia.
Secondo le parole di Hocquenghem: “Nel caso di un “attentat sans violence” [crimine senza violenza], il delitto nel quale la polizia non è riuscita a rintracciare alcun reato, il criminale è un criminale solo perché è un criminale, perché ha questo tipo di tendenze. Si tratta di quello che veniva comunemente definito delitto di opinione. (...) Il delitto scompare, da lungo tempo a nessuno interessa sapere se esso è stato effettivamente commesso, se qualcuno è stato ferito o meno. A nessuno inoltre importa di sapere se c’era veramente una vittima o meno” (
ibid.).
Si viene così a creare quella che Foucault definisce una “società dei pericoli” fondata sulla paura della sessualità, in particolare della sessualità del bambino “il legislatore non giustificherà le misure proposte dichiarando che la moralità universale dell’umanità deve essere difesa. Dirà invece che esistono delle persone per le quali la sessualità altrui è un pericolo permanente” (
ibid.).
In questa società avrà un ruolo decisivo il potere degli psichiatri e le tecniche manipolatorie da loro adottate sulle dichiarazioni del bambino: “Può essere che il bambino, con la sua sessualità, abbia desiderato l’adulto, può altresì avere acconsentito o addirittura fatto il primo passo. Possiamo anche giungere ad ammettere che è stato lui a sedurre l’adulto, ma noi specialisti, forti delle nostre conoscenze in psicologia, sappiamo perfettamente che anche il bambino che seduce corre il rischio di rimanere ferito e traumatizzato. (...) Conseguentemente, il bambino deve essere ‘protetto dai suoi stessi desideri’, anche se questi desideri lo indirizzano verso un adulto” (
ibid.).
Gli psichiatri, dunque, ritengo, si ergono a interpreti delle parole del bambino, ovvero ne rigettano il significato letterale, per giungere ad uno “più profondo”, “nascosto”. Ma chi ci dice che questo secondo significato sia quello oggettivo, quello che effettivamente il bambino è intenzionato a comunicarci? L'interpretazione delle parole del minore si fonda su un assunto dogmatico: che il bambino non sia capace di esprimere la propria volontà o addirittura di comprenderla. Un assunto, se non supportato da sufficienti prove, indimostrato, e perciò puramente ideologico.
Dopotutto se le parole del bambino possono essere interpretate in un senso, possono esserlo anche in un altro. Se mettiamo in discussione l'attendibilità della lettera del messaggio che egli ci invia, dobbiamo farlo in ogni caso, anche quando parla di una violenza subita. Perché anche in questo caso il messaggio non dovrebbe necessitare di un'interpretazione? E se l'interpretazione non coincide con la lettera del messaggio perché non dovremmo dubitare di quest'ultima anche quando ci parla chiaramente di una violenza subita? È possibile, che il bambino stia mentendo, magari per vergogna, ma per capire se un bambino mente non bastano i suoi genitori, la polizia, i giudici, i tribunali, le altre testimonianze e le altre prove? Un bambino da solo potrebbe mai tenere in scacco l'intero apparato? Se fosse così facile potremmo chiudere tutti i tribunali per manifesta inutilità. Potrebbe essere, d'altro canto, che il bambino possa mentire inconsapevolmente, avendo rimosso la violenza subita. Ma ecco che qui entrano in scena gli psichiatri. Essi ci garantiscono un metodo infallibile per capirlo. E questo metodo passa per la loro autorità. Se il bambino dice che non è avvenuto alcun fatto potrebbe voler dire il contrario. Se lo ha voluto potrebbe non essere in grado di volerlo. I medici si fanno garanti della parola del bambino contro la sua stessa parola, della sua volontà contro la sua stessa volontà.
A supportare questo sistema interviene la legge, che lo dirige e ne è diretta, stabilendo che esiste un età al di sotto della quale il bambino non può volere e non può dire di volere, in tema di sessualità. Quando questo avviene neanche la madre, come abbiamo visto nel caso di cronaca, prende sul serio suo figlio.
Paradossalmente però può dire di non volere. In questo caso la sua parola è presa nella massima considerazione. Quando il messaggio del minore coincide con la tendenza “psichiatrica”, l'interpretazione non è più necessaria.
Rileverei del resto un'altra palese contraddizione. Che il bambino possa non sapere esprimere la propria volontà questo è coerente logicamente, anche se socialmente sospetto, come abbiamo visto. Ma che egli non sappia cosa volere sembra più che altro una contradictio. Il volere non è mai astratto, è sempre diretto verso un oggetto. Se egli ha voluto, non solo ha detto di volerlo, ma lo ha effettivamente voluto, ha desiderato una determinata situazione, non ha voluto quindi opporsi ad essa ma anzi l'ha gradita, come si può dire che egli in realtà non la voleva? A meno che il bambino non sia schizofrenico non può volere e non volere allo stesso tempo una cosa. Potrebbe essere indeciso. Ma è comunque diverso dall'essere contrario. Potrebbe volerlo e non volerlo nel senso che intendiamo quando diciamo “una parte di me lo voleva” nel senso che c'era qualcosa che ci faceva gradire una determinata situazione ma ad una ponderazione più attenta la respingevamo. In questo caso però vale la decisione definitiva. Se io ho scelto di avere un rapporto sessuale dopo essere stato a lungo indeciso, non si può dire, da questa mia indecisione, che io sia stato costretto a farlo. È possibile che io in seguito mi penta della mia decisione. Ma ciò non toglie che non ho subito violenza alcuna e che sono stato consenziente al rapporto.
Si potrebbe pensare che un minore, e questa forse è l'accezione più comune, non sia in grado di ponderare attentamente per fare una scelta oculata. Questa è la ragione per cui la legge fa valere l'autorità dei genitori. Ma tuttavia non giustifica l'intervento penale della legge. I genitori hanno il diritto formale di proibire al loro figlio minorenne di frequentare una data persona. Tuttavia non hanno il diritto di pretendere l'intervento della legge qualora loro figlio disobbedisca. Tantomeno possono pretendere l'arresto della persona che loro figlio ha deciso di frequentare disobbedendo al loro comando. La stessa cosa, per coerenza, dovrebbe valere per un rapporto sessuale.
Tuttavia c'è un'altra teoria che fa riferimento all'interpretazione psichiatrica precedente che sostiene che un atto sessuale tra un adulto e un bambino è sempre dannoso per quest'ultimo e per lo sviluppo della sua psiche. Ed era proprio questa concezione che Foucault criticava denunciando la tecnica manipolatoria della psichiatria. D'altra parte per quale ragione questo pericolo dovrebbe riguardare soltanto i minori di 14 anni? Perché non i ragazzi di età superiore? Del resto non sarebbe ammissibile per particolari individui uno sviluppo precoce o ritardato rispetto all'età anagrafica? E se ciò è vero, come vorrebbe il buon senso, come si farebbe a valutare questa differenza nei singoli individui e stabilire l'età esatta? Forse che la psichiatria ha a disposizione strumenti così raffinati da riuscire a compiere misurazioni con una precisione matematica? Abbiamo visto come varia l'età del consenso da paese a paese. Ciò ci fa concludere che la risposta a questa domanda è negativa.
Si tratta di una questione tutt'altro che marginale. Si tratta del controllo che la società esercita sul nostro corpo. Si tratta della criminalizzazione di una determinata categoria di persone. Come nel medioevo si perseguitavano le streghe per la loro “natura maligna”, così oggi si perseguitano i pedofili, gli incestuosi, i “perversi” in generale. Non si guarda all'effetto delle loro azioni, ma alla loro “natura”, alla loro “malattia”, “devianza”. Devono essere, per la società, necessariamente dei criminali. E ciò che li rende tali non sono le loro azioni, ma il loro stesso essere. Basta definirli per denunciarne i crimini. E questi crimini non sono violenze o atti contro altre persone, ma i loro stessi desideri, le loro stesse pulsioni, la loro stessa psiche: loro stessi. C'è in questo un'ascendenza lombrosiana, che vede il comportamento criminale connaturato alla “natura” di particolari individui.
Non è un problema d'età. Non esiste un'età anagrafica al di sotto della quale il soggetto sia incapace di intendere e di volere sessualmente.
I bambini hanno anche loro pulsioni sessuali. E ne hanno anche e principalmente nei confronti degli adulti. Questo doveva già essere chiaro dai tempi di Freud. Eppure una sedicente scienza pretende di decidere per i bambini cosa questi devono e non devono desiderare, cosa e quali rapporti debbano avere e con chi. Definisce i “perversi” e li sottopone alla propria macchina inquisitoria, così come la Chiesa definiva l'eresia e torturava le “anime deviate”. Definisce anche le “vittime” di questi perversi e i modi per salvarli dalla loro “pestilenza” che contagia l'anima, come la ciarlataneria medica del Seicento escogitava i metodi per tenersi lontani dal contagio degli “untori”.
Gli psichiatri e gli psicologi odierni ridono dei loro antenati quando questi definivano “perversioni” pratiche come l'omosessualità o la masturbazione; ma loro stessi fanno altrettanto con gli “orchi” che periodicamente contribuiscono a dare un'atmosfera horror agli organi di informazione.
I pedofili sono al centro di questa furia “medicalizzante”. La pedofilia, si ribadisce perennemente, è una malattia. I pedofili sono degli stupratori. Ciò che fanno è male. Anche se lo fanno con il consenso della loro “vittima”. Qualunque minore entri in contatto con loro è potenzialmente in pericolo. I pedofili devono essere scovati, rintracciati, pedinati, inseguiti, catturati e poi, eventualmente, curati, perché sono un pericolo per la società. La loro anima deve essere “redenta”. Nel medioevo i monaci detenevano una rozza tecnologia per farlo, una croce, una bibbia, e gli strumenti di tortura. I moderni psichiatri tutte le tecniche che secoli di ricerca scientifica hanno messo loro a disposizione.
Foucault negava la validità scientifica di quelle discipline che intendono scovare il “male dell'anima”. Probabilmente su questo si sbagliava. La malattia psichica non è un'invenzione moderna, esiste davvero. Un uomo che stupra una donna è probabilmente malato. Un adulto che compie violenza su un bambino è forse anch'egli malato.
Ma dobbiamo distinguere tra i casi in cui viene esercitata una violenza e quelli in cui l'atto sessuale avviene con il consenso di entrambe le parti. La pedofilia non è di per sé una patologia. Così come non lo sono l'omosessualità, l'onanismo, l'incesto, la zoofilia e l'eterosessualità stessa. Ciò, ovviamente, non significa che un omosessuale, un onanista, un incestuoso, uno zoofilo o un eterosessuale non possano compiere violenze. Una particolare preferenza sessuale non è di per sé un crimine o una malattia da combattere. Questo dovrebbero averci insegnato secoli di storia di persecuzioni contro i diversi. Di crimine, di malattia, si tratta, laddove subentra la violenza. Laddove per provare piacere si ricorre alla sofferenza di un'altra persona è lecito parlare, sia da un punto di vista giuridico che medico, di devianza. Laddove, invece, la società si accanisce contro l'essere stesso di una persona, qualunque esso sia, non fa che reiterare l'ennesima persecuzione.
Su questo punto ritengo che il discorso di Foucault e di altri filosofi sia perfettamente condivisibile. Il loro ragionamento ci induce a una semplice conclusione: se il bambino è consenziente non c'è né reato né “perversione” da parte dell'adulto. Questo è una conclusione logica, ragionevole, e che pure ha suscitato scomposte reazione di sdegno da parte di certi “scienziati” benpensanti. Così si è espresso il grande psicanalista Massimo Fagioli: “Foucault dice esplicitamente che è lecito violentare un bambino” (
Left) oppure “E allora ricordo il pensiero criminale di Foucault che ha avuto l’idea di una sessualità umana senza identità, e dice che violentare e quindi distruggere l’identità di un bambino, è libertà” (Left).
Falso! Foucault non ha mai detto che è lecito violentare un bambino né che distruggerne l'identità sia libertà! Questa è l'interpretazione tendenziosa di un ciarlatano a torto considerato un “guru” della sinistra, osannato da politici come Bertinotti, riverito da giornali come Left su cui scrive interminabili articoli di due pagine tutte le settimane!
Per far capire il soggetto cito altre delle sue “perle” di sapienza: “a me sembra evidente che ciò che può portare a morte la sinistra è il pensiero criminale di Foucault, le idee stupide di Basaglia, il discorso razionale di Freud” (
ibid.). E sì, meno male che c'è Fagioli ad aiutare la sinistra, mica uno come Foucault che ha scritto testi che continuano ad essere letti e studiati in tutto il mondo e che ha aperto un nuovo universo quello della biopolitica che si dimostra ancora oggi fruttuoso; mica “le idee stupide” di uno come Basaglia grazie al quale sono stati chiusi i manicomi; mica uno come Freud che ha fondato la psicanalisi, disciplina che permette di vivere agiatamente allo stesso Fagioli e che ha osato addirittura – orrore! – fare un “discorso razionale”. Molto meglio discutere nei salotti con Bertinotti per parlar male dei più grandi pensatori contemporanei.
“Anche se tanti, sempre, mi hanno detto che sono brutto e cattivo a rifiutare Freud, Heidegger, Binswanger, Foucault, Basaglia, io continuo a dire che i maestri della vita e del sapere sono stati quelli che parlavano per immagini. E i nomi belli sono Shakespeare, Caravaggio, Picasso, e anche Raffaello, Leonardo, e tanti. Ma soprattutto Omero che aveva capito la negazione, che non era desiderio” (
ivi). Qualcuno ha detto a Fagioli che Shakespeare, Caravaggio, Picasso Raffaello, Leonardo e Omero non sono né filosofi né scienziati ma artisti? Forse non ha ancora compreso la differenza.
Questo parentesi solo per offrire un esempio del dileggio cui va incontro, da parte di chi poi parla di sinistra e di trasformazione sociale, chi si permette di mettere in discussione certi dogmi sociali che fanno riempire le pagine dei giornali e i notiziari televisivi. “Il mostro in prima pagina” è qualcosa a cui ci siamo tutti malauguratamente assuefatti e che diamo ormai per scontato.

mercoledì 22 luglio 2009

Il ras è nudo




Tutta la verità su Di Pietro, quella nascosta anche dall'informazione considerata indipendente



Si propone come il difensore della legalità, il garante dell'etica nella politica, attacca Berlusconi e le sue vicende giudiziarie, critica il Pd per un'opposizione non abbastanza intransigente, si presenta come la vera alternativa alla destra e mira a conquistare l'elettorato di sinistra deluso.
Vorrebbe passare come integerrimo paladino delle istituzioni, ma, Antonio Di Pietro non si può certo dire estraneo al sistema che egli dice di voler denunciare.
Il nemico ufficiale dovrebbe essere Silvio Berlusconi, ma con quest'ultimo Antonio “Che c'azzecca” Di Pietro può vantare diverse somiglianze.
Innanzitutto la gestione del partito, o per meglio dire della corte al suo servizio. Esistono due “Italia dei Valori”: una è che quella ufficiale, composta da iscritti e militanti. L'altra è l'Associazione Italia dei Valori, che invece è composta da tre persone, come la Santissima Trinità: Di Pietro stesso, sua moglie Susanna Mazzoleni e l'amica di famiglia Silvana Mura. Una gestione familistica che stride fortemente con le ostentate dichiarazioni in merito a queste questioni. Una gestione autoritaria, poiché Di Pietro a capo di entrambi i partiti cloni ha i poteri di un monarca assoluto, che contrasta con l'immagine di chi grida ai quattro venti di voler difendere la democrazia.
Ma ciò appare una sciocchezza a confronto della gestione alquanto disinvolta del bilancio del partito a due facce, che riscuote i finanziamenti pubblici dei rimborsi elettorali per comprare immobili, attraverso la società immobiliare di famiglia Antocri.
Anche questo fatto sembra tuttavia una sciocchezza di fronte alle alleanze politiche a livello locale, dove l'IdV è vicina a personaggi alquanto discutibili, come l'amministrazione Del Turco che egli ha pure denunciato, ma soltanto una volta che è partita l'inchiesta della magistrature e che è scoppiato lo scandalo della sanità, dopo aver partecipato alla giunta senza mai battere ciglio.
Ma, si dirà, almeno a livello nazionale Di Pietro conduce un'opposizione dura, intransigente, ben lungi da ogni possibile intrigo politico. Falso.
Di Pietro è stato lo stesso che ha votato contro l'istituzione di una commissione d'inchiesta sui fatti del G8 di Genova, quando morì un ragazzo di nome Carlo Giuliani e i manifestanti furono barbaramente pestati dalla polizia.
Di Pietro è un uomo d'ordine, si sa, e in quanto uomo d'ordine, difende la polizia anche nei casi in cui questa si macchia di gravissimi reati e infrange quelle stesse leggi di cui Di Pietro si dice tutore.
Egli sostiene che una commissione sarebbe inutile perché non farebbe che raddoppiare i compiti della magistratura. Ora appare ben strano che Di Pietro, che conosce sia il mondo della giustizia che quello della politica, non sappia distinguere tra responsabilità penali, che è compito proprio dei magistrati accertare, e responsabilità politiche, che invece non spetta chiarire alla giustizia, ma alla politica, e quindi a una commissione parlamentare, che approfondisca ad esempio il ruolo del Ministro degli Interni o del Vice Presidente del Consiglio e dello stesso Capo di Governo nello svolgimento dei fatti.
Ma Di Pietro è anche lo stesso che ha votato a favore della TAV, del Ponte sullo Stretto, affare per la tanto criticata monopolista Impregilo, e del Mose a Venezia, a cui si è detto contrario anche il Sindaco Cacciari, mostrando così il rispetto che ha nei confronti della popolazione locale e della sua volontà.
Queste e altre amenità sono riassunte ottimamente
in questo articolo.
“L'uomo d'ordine” può vantare anche rapporti con personaggi di chiara fama complottista e stragista, come sono pezzi della massoneria e della mafia. Esistono diversi iscritti all'Italia dei Valori, con cui Di Pietro ama presentarsi in pubblico che risultano anche sulla lista della P2 di Licio Gelli, nonostante nello statuto del partito ci sia scritto che esso si oppone alle organizzazioni eversive come appunto quella della nota loggia massonica. Senza contare gli esponenti e gli imprenditori vicini alla mafia (
Casa della legalità).
Di queste notizie si trova ampia documentazione in rete e per chi volesse saperne di più non avrebbe difficoltà a trovarne.
In questa sede invece ci soffermeremo su un caso particolare della doppia morale dipietrista, ovvero della sua spregiudicata politica nella propria terra d'origine.
Il Molise, regione di provenienza dell'ex magistrato, nonché ex democristiano e anticomunista, è feudo ormai dell'IdV, dove questo ha riscosso un successo straordinario alle ultime elezioni amministrative ed europee.
Per la sua regione Di Pietro ha fatto tanto. E per farlo non ha guardato in faccia a nessuno. Questa è quella che, tanto i berlusconiani doc, quanto i dipietristi doc chiamano “politica del fare”.
Non si è fatto scrupolo di allearsi con quello che doveva essere il suo avversario, ovvero il Presidente della Regione Molise, nonché capo del centrodestra molisano, Michele Iorio, altro feudatario della zona, come è stato denunciato con un articolo apparso sul Giornale da Filippo Facci (
Il Giornale).
In rispetto del più smaccato consociativismo in Molise Italia dei Valori e parte Popolo della Libertà (assieme a pezzi del Pd) hanno costituito un'alleanza allargata per contrastare il nuovo “astro nascente” della classe dirigente molisana: l'europarlamentare del PdL ed ex UDC Aldo Patriciello, altro bel personaggio.
Nel comune di Venafro il difensore della legalità partecipa a una giunta di centrodestra. Ma non era proprio lui quello che doveva scongiurare qualsiasi possibile inciucio tra i due schieramenti?
Eppure in nome degli interessi localistici e familistici Di Pietro è disposto con eroico spirito di sacrificio a penalizzare anche i suoi conclamati “principi”. Così non si fa scrupolo di partecipare alla gestione delle autostrade molisane assieme al capo locale dell'arcinemico PdL, come denuncia lo stesso Giornale.
Gli accordi per la costruzione della Termoli-San Vittore risalgono all'epoca in cui Di Pietro era Ministro delle Infrastrutture ed elogiato dal suo presunto avversario Iorio. (
Primapaginamolise). Di Pietro disse che per fare l'interesse dei molisani bisogna prescindere dalle appartenenze politiche; si deve dire che è stato fedele a questa linea fino alla fine, poiché ha guardato molto agli interessi dei molisani, soprattutto di certi molisani, e per nulla alla ostentata presunta differenza politica. Alla costruzione della Termoli-San Vittore si era deciso dovesse partecipare l'ATI, che è una società di proprietà al 55% della impresa Falcione vicina a Iorio (mytermoli.com).
Tra Di Pietro e Iorio sembra esserci un rapporto inscindibile, come provano le numerose manifestazioni di stima, come quella di cui sopra, e le numerose “amnesie” dell'IdV circa gli affari dei suoi avversari ufficiali che spesso omette di denunciare. Ha omesso di denunciare il buco di bilancio della sanità prodotto dall'amministrazione Iorio, la vicenda degli appalti per la ricostruzione a seguito del terremoto, nonostante a San Giuliano le vere vittime della calamità vivano ancora nei container. Non ha detto nulla Di Pietro della doppia carica che ricopriva Iorio, di presidente della Regione e parlamentare, come non ha detto nulla di un altro conflitto di interessi dei due fedeli di Iorio, Di Giacomo e De Camillis, presenti sia in Consiglio regionale che al Parlamento nazionale (
altromolise.it). Ma su questa faccenda Di Pietro fa orecchie da mercante, nonostante egli sia stato in altre occasione sempre in prima fila contro il conflitto di interessi e i molteplici incarichi pubblici, quando questi però non riguardavano i suoi amici-nemici.
Politica, Sanità, Infrastrutture, ma anche Servizi, sono di competenza dell'Amministrazione de facto Di Pietro-Iorio, come prova l'accordo ufficiale che al tempo del governo Prodi, quando Di Pietro era Ministro, fu ratificato dai due amici molisani assieme all'allora Presidente abruzzese Del Turco (lo stesso che face scandalizzare Di Pietro ma a scandalo già avvenuto) per la diga di Chiauci e la spartizione delle acque tra Abruzzo e Molise (
altromolise.it).
Queste sono notizie facilmente reperibili e, per chi abbia una qualche dimestichezza con gli affari politici e gli intrighi molisani, ampiamente conosciuti.
Ma come mai a questi fatti non è stato dato il giusto rilievo nazionale tanto che la maggioranza dell'opinione pubblica, anche quella più informata e che, ingannata, spesso finisce per votare IdV, ne è all'oscuro? Perché il grande Tonino gode di una copertura informativa assai solida.
I mezzi di informazione vicini al Pd non osano mettere il dito nella piaga, visto che anche loro non è che siano proprio immuni da colpe come testimoniano i rapporti che l'ex Presidente della Provincia di Campobasso D'Ascanio, in quota Pd appunto, intrattiene con la coppia perfetta degli amiconi Antonio e Michele (
altromolise.it).
La stampa di destra fa lo stesso, data l'influenza di Iorio e dei suoi uomini nel PdL.
Ma fa lo stesso anche la spregiudicata informazione dei “duri e puri” del giornalismo nostrano che non si lasciano intimorire da nessun potere, quella guidata da Marco Travaglio.
Sulle ambiguità di Di Pietro non si è interessato altrimenti che con il silenzio più totale, tradendo il suo consueto scrupolo giornalistico. Ha denunciato l'affare, oggetto di un'indagine della magistratura, dell'appalto della variante autostradale di Venafro che vedeva coinvolto Aldo Patriciello, ma ha taciuto circa la gestione molto discutibile Iorio-Di Pietro di un altro appalto autostradale, quello della Termoli-San Vittore. Evidentemente ha deciso di accantonare il metodo rigoroso che adotta per smascherare i nemici dell'amico Tonino.
Basta vedere come Travaglio prima delle elezioni europee e amministrative scendesse negli scomodi particolari di tutti i partiti, tranne quello del suo compagno e capo di partito, dove si limitava a parlare della candidatura di un trasformista passato in vari gruppi, attribuendone peraltro la responsabilità a una semplice “svista” (
voglioscendere). Perché dovrebbe trattarsi di una semplice svista? Perché non potrebbe trattarsi di una decisione dello stesso ex magistrato dato che tutto quello che avviene nel partito (tanto più le candidature a livello europeo) non passa senza la sua approvazione e dato che all'interno dell'IdV ha un potere pressoché assoluto? Non potrebbe essere stato lo stesso Di Pietro ad aver voluto questa candidatura, sicuro che sarebbe passata inosservata o giustificata come semplice “svista”? Ma Travaglio omette anche di parlare di tutti i massoni e i collusi con la mafia presenti nell'Italia dei Valori.
Dove finisce in questi casi il rinomato acume del castigatore nazionale? Scompare di fronte all'ammirazione incondizionata per il suo capo di partito? O c'è qualcosa di più? Un accordo di reciproca protezione? Come possono a un giornalista abile e smaliziato come Travaglio sfuggire certe frequentazioni quantomeno imbarazzanti dell'amico?
Egli era l'allievo stimato del grande Indro Montanelli. Ci domandiamo se quest'ultimo, che non aveva mai risparmiato critiche a nessuno, avrebbe approvato un simile comportamento e una simile iniquità nei giudizi.
Per concludere vorremo mettere in guardia tutti coloro che, soprattutto a sinistra, si stanno lasciando sedurre dal “grande moralizzatore” che vorrebbe apparire come estraneo alle logiche lobbistiche di gestione del potere.
Di Pietro non è di sinistra, tanto meno di una sinistra “radicale” come spesso viene dipinto dalla stampa. Al parlamento europeo partecipa ad un gruppo centrista, quello dei liberali ed ha votato a favore della Direttiva Bolkenstein per la privatizzazione dei servizi e in favore dell'innalzamento dell'orario di lavoro a 65 ore.
Ha taciuto sulla missione italiana in Afghanistan e sul rifinanziamento che ha votato, come ha taciuto sull'aumento della spesa militare.
Potrebbe trarre in inganno l'abile “campagna acquisti” che ha potato nel suo partito personaggi della sinistra, anche considerati comunisti, come Zipponi proveniente da Rifondazione o come il filosofo Gianni Vattimo. Lasciando ai lettori ogni riflessione sulla dubbia “moralità” di costoro che abbandonano i loro partiti proprio nel momento del bisogno (e proprio guarda caso quando la sinistra non entra in parlamento e l'IdV è in chiara crescita) la linea di Di Pietro non è quella di proporsi come alternativo a Berlusconi e alla destra, ma di attrarre tutti i “delusi” di sinistra per trattenerli all'interno dell'asse bipolare PdL/Lega-Pd/IdV. Non, quindi, elemento antisistema, ma pedina contigua e interna al sistema che ha il compito di tapparne le falle con la sua immagine “pulita”.

domenica 19 luglio 2009

Il morbo di Veltroni

Si sta diffondendo una pericolosissima pandemia, non è il virus della “febbre suina”, non è l'influenza “aviaria”, non è il morbo della “mucca pazza”, non è l'AIDS, ma è un virus mai visto, scoperto solo recentemente, e che colpisce solo una determinata categoria di persone, i dirigenti di sinistra. Se si appartiene a questa categoria si hanno due alternative per diventare immuni: a) smettere di essere dei dirigenti; b) smettere di essere di sinistra. In genere molti scelgono quest'ultima alternativa. Raramente la prima.
Il virus colpisce tutti i soggetti, uomini o donne, che ricoprono incarichi di dirigenza all'interno di partiti politici o giornali di sinistra.
Esso è stato chiamato “morbo di Veltroni” dal nome del primo soggetto affetto su cui è stato studiato. Detto anche “destrite”, per la convinzione dei primi studiosi, ormai ritenuta erronea, che consistesse in un semplice difetto dell'orientamento, causa di una pendenza dalla parte destra. Si è invece riscontrata, attraverso una sperimentazione su ratti comunisti, anche l'alterazione della corteccia cerebrale, e la disfunzione del sistema nervoso centrale con importanti conseguenze sulla normale funzionalità politica.

Sintomatologia

I sintomi consistono nella perdita di contatto con la realtà, soprattutto con quella al di fuori della televisione, in deliri improvvisi e apparentemente inspiegabili, inizialmente si manifestano con affermazioni contro il comunismo e poi, progressivamente, contro il socialismo e contro la sinistra tutta. Allo stadio terminale si può riscontrare una totale perdita di coscienza e di identità politica che può portare nei soggetti più gravi alla paralisi e anche alla morte politica.

Periodo di incubazione

Necessita di un periodo di incubazione molto lungo, fino a decenni. In tutto questo periodo i soggetti colpiti non manifestano disfunzioni o segni di squilibrio. In alcuni casi, una volta manifestatasi la patologia i soggetti possono ricordare di averne avvertito già i sintomi in passato, ma è una mera proiezione del soggetto, dovuta a scompensi della memoria storica.

I casi studiati

Tra i vari casi studiati i più interessanti risultano riguardare i seguenti soggetti:

  • Walter Veltroni. È stato il primo soggetto affetto ad essere studiato e da cui prende il nome la presente infermità. Il soggetto in esame ha manifestato i primi sintomi in età giovane, quando da membro di un partito comunista che annoverava personaggi quali Berlinguer, Amendola, Ingrao, ha cominciato a seguirne altri come Kennedy e Willy Brandt che, con tutto il rispetto, non è proprio quello che ci si apsetta da un comunista. Anni dopo è stato riscontrato un aggravio dei sintomi, con la comparsa di affermazioni del tipo “non sono mai stato comunista” o “il comunismo è incompatibile con la democrazia” (che mostrano lo scompenso dell'attività mnemonica, segno dello stadio già avanzato del morbo). Allo stadio terminale si è registrato il delirio più completo e la perdita della facoltà di distinguere il reale dall'immaginario provato da espressioni vocali come: “l'esponente dello schieramento a me avverso” e la parziale perdita della facoltà di articolare suoni come “Berlusconi” e “io sono di sinistra”. La malattia ha portato il soggetto alla sconfitta elettorale e alla sparizione dalla scena politica. Negli ultimi giorni si è manifestato un ulteriore peggioramento con l'affermazione che Craxi era meglio di Berlinguer.
  • Nichi Vendola. Sebbene il morbo si trovi ancora ad uno stadio primitivo c'è da registrarne il progressivo e rapido avanzamento. I sintomi analizzati sono l'incapacità di riconoscere e di distinguere la sinistra con annessa disfunzione dell'apparato di partito segnato da un visibile deterioramento e da disturbi del sistema immunitario che ne provocano il mancato riconoscimento di germi patogeni come i socialisti craxiani, i radicali e gli scioperi della fame.
  • Maurizio Zipponi. Si tratta di un caso alquanto controverso su cui gli studiosi non sono mai riusciti a trovare un accordo. Secondo alcuni si tratterebbe di una mutazione genetica del ceppo originario che ne spiegherebbe la sintomatologia eterodossa, come la negazione dell'esistenza di destra e sinistra (sull'inesistenza di quest'ultima si può anche convenire, ma è la prima che ci preoccupa, che potrebbe far pensare anche ad una parziale cecità) e la migrazione verso Di Pietro. Per altri invece si tratta di un semplice caso di “sindrome di Mastella”, comunemente conosciuta come “trasformismo”. I sostenitori della prima tesi fanno notare che è sempre presente il medesimo scompenso motorio che conduce allo sbilanciamento verso destra, tipico del morbo di Veltroni, i secondi invece interpretano il fenomeno come una paralisi dello scranno, che può provocare localmente anche difetti motori, come il cambio di partito per conservare un seggio prlamentare.
  • Marco Rizzo. È un caso ancora poco studiato, ma che presenta manifestazioni anomale. Ad esempio l'attività propagandistica in periodo elettorale contro il proprio partito, ma lo spostamento dell'asse politico verso Di Pietro, anche se discontinuo, non lascia dubbi circa la natura del virus.
  • Fausto Bertinotti. Caso di notevole interesse scientifico, data la particolare storia clinica del soggetto. È esemplificativo di come il virus colpisca anche soggetti in ottima salute. La patologia si è manifestata all'improvviso in una forma virulenta su un organismo apparentemente insospettabile. Incapacità di distinguere la mano destra dalla mano sinistra, impedimento nella corretta focalizzazione dei colori, che ne permette la visualizzazione di tutti quelli dell'Arcobaleno tranne il rosso, attacchi di “unionite” che rendono il soggetto in preda a una incontrollabile mania di unire comunisti e anticomunisti, dopo aver fatto per anni scissioni tra comunisti e comunisti, improvvise palpitazioni alla vista di operai, allergia ai luoghi di lavoro, assuefazione alle poltrone di Porta a Porta (ma per quest'ultima ha intrapreso un'efficace terapia di disintossicazione). Riscontrati anche casi di alterazione della coscienza, come prova la sua convinzione che il Pd sia di sinistra. Si pensa che possa aver contratto il virus per contagio dalla moglie, la cui affezione, mai provata, può essere ipotizzata sulla base della frase che una volta pronunciò, alla domanda “cos'è il comunismo?” rispose: “il comunismo è una specie di cattolicesimo”, ma l'attendibilità potrebbe esserne pregiudicata dalla vicinanza di Bruno Vespa.

Come si contrae il virus

Il morbo può essere contratto nei seguenti casi:
  • Per contagio. È la modalità più comune di diffusione. Può bastare un fugace contatto o scambio verbale con un soggetto affetto per trasmettere il virus.
  • Come effetto dell'eccessiva frequenza dei salotti di particolari trasmissioni televisive. In particolare Porta a Porta.
  • A causa dell'ennesima sconfitta subita alle elezioni. Secondo la teoria psichiatrica, sopraggiungerebbe in seguito a uno shock del sistema nervoso e alla scomparsa di sinapsi dell'emisfero destro, dopo quella degli elettori dell'emisfero sinistro. Secondo la teoria psicanalitica come metodo di rimozione del senso di colpa e del sentimento di inadeguatezza dovuto a evento traumatico che porta il soggetto a proiettare il proprio stato emotivo su un oggetto esterno. Secondo le parole della nota psicanalista Katy Fotten: “hai perso perché fai schifo tu come politico, la sinistra non c'entra un cazzo!”
  • Per la concomitanza di due o di tutte le cause suddette.

Cure

Dato che le prime ricerche mediche sono molto recenti non esistono cure allo stato attuale. Secondo Moh Tah Chi, docente di Patologie del sistema politico italiano e cazzologia della sinistra all'Università di Pechino, “Il molbo di Veltloni è inculabile. Chi lo contlae limane semple inculato”. Anche gli elettori, aggiungiamo. Sono state sviluppate cure palliative che prevedono la quarantena del soggetto da tutte le televisioni e da tutti giornali per almeno una legislatura.
Si possono però prendere efficaci precauzioni per evitare di contrarre il morbo: astenersi dalla vicinanza politica con soggetti affetti, fare un uso moderato di Bruno Vespa, evitare di ricandidarsi alle elezioni se si è già stati sconfitti altre volte, se amate lo sport datevi al “tiro al Riformista”, aiuta a focalizzare bene il bersaglio.

giovedì 16 luglio 2009

In guerra si muore


Dovrebbe essere una verità acclarata da millenni di esperienza, un'ovvietà persino, eppure nell'era della tecnica e della conoscenza scientifica non è così.
Perciò capita ancora di imbattersi in qualcuno che si stupisce una volta sperimentata questa elementare verità. Non riesce a capacitarsene, quasi che si tratti di un evento imprevedibile, qualcosa al di fuori della comprensibilità umana.
Eppure è facile. In guerra le persone si ammazzano. Quindi chi va in guerra mette a repentaglio la sua vita. Non è escluso che possa morire.
Non si tratta di una scoperta recente. Già i neandertaliani che si combattevano con le clave, molto più saggiamente dei TurboSapiens 2000 che si sterminano con le armi nucleari, avevano appreso questo fondamentale fenomeno, sebbene le loro armi fossero molto meno potenti delle nostre.
In epoche passate, e ancora oggi a dirla tutta, la guerra era vista come un'epopea romantica, un'affascinante impresa fatta da eroi, battaglie leggendarie condotte da comandanti geniali serviti da soldati intrepidi, qualcosa di lindo e pulito, dove anche il sangue è bello e tragico quando scorre dalle vene. Niente a che fare con l'incompetenza dei generali, il terrore dei soldati mandati al macello, la carneficina dei corpi mozzati, il puzzo insopportabile della putrefazione dei cadaveri, l'orrore della carne smembrata e bruciata, niente a che fare con la guerra vera. Questa immagine romanzesca ha mandato a morire generazioni di giovani convinti di battersi per un ideale. E questo se andava bene, quando cioè non ci si arruolava per mangiare, o ancora peggio per costrizione.
Eppure, anche nella mistificazione, i nostri progenitori sapevano una verità essenziale e non si sarebbero mai sognati di negarla. In guerra si muore e anche parecchio e se ne fai parte la morte è una sventura che devi mettere in conto. Magari idealizzavano questa morte, immaginavano, nei libri che leggevano o scrivevano, sempre che sapessero leggere e scrivere, una morte eroica, una morte in cui il dolore della sconfitta fosse maggiore di quello per lo spappolamento degli organi interni. Una morte così, non esiste. Quando muori ammazzato, se hai il tempo di rendertene conto non te ne frega niente dell'Onore, della Vittoria e della Patria, ma pensi solo alla Pelle che stai perdendo, con tuo grande dispiacere, o peggio, al Dolore fisico che provi. Al più pensi ai tuoi familiari, ai tuoi cari, alle persone che lasci, pensi ai ricordi belli e brutti della tua vita. Questo per gli eroi. In ogni caso eroe o meno non pensi ai grandi ideali e alla difesa della Nazione.
Comunque pur se ne avevano un'idea abbastanza edulcorata, i nostri avi sapevano che la morte aspetta all'angolo il soldato.
Noi, oggi, invece, abbiamo forse un concetto meno romantico della guerra, la televisione ci mostra spesso le immagini dei suoi veri risvolti, che sia quella di Ares o di Atena, perché la guerra è sempre guerra. Ci mostra le carneficine e tutti gli orrori vari che abbiamo imparato a conoscere senza essere mai stati su un campo di battaglia. Pur tuttavia, c'è una sorta di tabù, nelle nostre società “evolute” e “democratiche”. I nostri governi fanno le guerre. Ma sono guerre giuste, a fin di bene, non per conquistare qualcuno come per i nostri progenitori, ma per fargli del bene. Ora noi dimentichiamo che anche chi ci ha preceduto diceva che si andava a far la guerra per far del bene a chi si ammazzava. E siccome la guerra è cosa buona e giusta non può fare morti, soprattutto tra coloro che sono buoni e giusti, cioè tra le nostre truppe filantrope, tra i portatori della democrazia, tra gli invasori. Costoro non possono morire. Possono morire gli altri, anche se sono civili. Quelli sono barbari, loro sono abituati, loro non danno valore alla vita. Ma noi no! Noi non possiamo morire quando andiamo a fare la guerra, noi non possiamo morire quando andiamo a portare la morte! Così c'è sempre questo stupore, questa sorta di incredulità da parte di coloro che mandano a morire o a far morire qualche ragazzo incosciente. Perché per andare in guerra devi esser o incosciente o pazzo o stronzo, non basta la scusa del lavoro che non si trova.
Due giorni fa è morto un soldato italiano in Afghanistan, Alessandro Di Lisio. Cordoglio da parte di tutti eccetera eccetera.
Tra le dichiarazioni commosse di queste “alte cariche dello Stato” (dove “carica” non sta per ruolo istituzionale, ma per carica esplosiva pronta a uccidere!) mi sovviene una che mi ha colpito in particolare. Il Presidente della Regione Molise, regione del soldato ucciso, ha dichiarato via telegramma rivolgendosi ai genitori: “Vi esprimo il più profondo cordoglio mio personale e di tutti i molisani per la prematura scomparsa del caro Alessandro.
Vostro figlio ha dato la vita per gli ideali di pace, di giustizia, di libertà e di democrazia.
Ideali immortali, come immortale sarà il suo ricordo per chi gli ha voluto bene e per chi ha avuto da lui aiuto e comprensione.
In questo triste momento, dunque, vi rappresento la vicinanza di tutto il Molise che piange insieme a voi un figlio prediletto il cui operato, al servizio dei più deboli, lo ha reso indimenticabile e meritevole di essere scritto nel grande 'libro dei giusti'” (Informamolise).
Ma che belle parole! Chissà quanto tempo il Presidente Iorio ha sottratto alla sua agenda politica per scrivere questo discorso memorabile!
Naturalmente prima di mandarlo ai genitori questo telegramma lo ha spedito alla stampa. L'informazione prima di tutto!
Ora, Iorio è uno di quelli che pensa, o che dice di pensare, che la guerra si fa per “gli ideali di pace, di giustizia, di libertà e di democrazia” e compagnia bella? Io credo di no. Perché non siamo più nell'800. Oggi la guerra non esiste più. Esistono le “missioni di pace”.
È un modo davvero singolare di rappresentare il fenomeno. Prima, la guerra era epica e la morte era eroica. Ma era guerra e morte, pur sempre. Oggi la guerra non è epica e la morte non è eroica. Ma non si chiama più guerra e morte quella che uccide. Per cui tu puoi sostenere tranquillamente quando muore un soldato che egli è stato “al servizio dei più deboli”, quasi si trattasse di una crocerossina o di un missionario. Se muore un soldato, nulla di impensabile. Ma se muore uno che era al servizio dei più deboli allora diamine! Non doveva proprio morire! Così c'è lo stupore. E tutti cadono dalle nuvole. Ma come avrà mai fatto a morire? Come è successo? Quali sono state le dinamiche reali? Ma non era lì per difendere la pace, la giustizia e la democrazia? E allora perché l'hanno ucciso? Siccome qualcosa bisogna pur rispondere quando viene fatta questa domanda allora si dice che quelli che lo hanno ucciso sono dei “terroristi”. Perché solo dei terroristi possono uccidere una crocerossina o un missionario. E allora tutti addosso ai terroristi. Che magari sono solo dei poveri contadini afghani esasperati da otto anni di occupazione e di bombe e che pace, giustizia e democrazia non sanno neanche cosa siano. E nemmeno il terrorismo.
Ma che migliaia di poveri contadini afghani possano morire per difendere la “loro” patria, questo non riusciamo a comprenderlo. Loro sono terroristi. I soldati occidentali, soprattutto quelli italiani, invece sono dei buoni samaritani. Sono lì con fucili, missili e carri armati, chissà perché, però vanno in “missione di pace”. Non possono morire. Non devono morire.
I nostri avi sognatori immaginavano il nemico dignitoso almeno quanto il proprio fronte. Il nemico valoroso andava rispettato. Egli vuole la nostra rovina, come noi la loro, però c'è modo e modo di volerla. Dopotutto anche lui difende la Patria, anche se una patria diversa.
I nemici di oggi invece sono differenti. Sono cattivi e cinici. Sono tutti terroristi. Mai che trovi dei nemici come si deve! Loro attaccano le nostre crocerossine armate al servizio dei più deboli! Così non si fa.
Perché ci si dovrebbe aspettare dal nostro nemico che non ci attacchi? Noi andiamo nel suo territorio, occupiamo i suoi spazi, massacriamo la loro popolazione e dovremmo aspettarci che se ne stiano zitti e buoni a guardare e magari dirci anche grazie? Perché? Ma la risposta è sempre la stessa: perché noi non siamo in guerra. Quindi il nemico non può difendersi. Noi possiamo ucciderlo, ma non possiamo essere uccisi.
“I morti italiani in Afghanistan sono saliti a 14” urlano gli organi di informazione. Che orrore! Che scandalo! Come si fa ad ammazzare 14 missionari? I soliti terroristi.
Ma perché nessuno dice quanti sono gli afghani ammazzati? Forse perché loro non vogliono vivere? forse perché le loro madri non si disperano? No, perché non hanno dei politici importanti che si commuovano quando qualcuno di loro muore.
Ma quanti sono? 20000? 30000? e quanti feriti? I soldati italiani feriti vengono rimandati a casa a curarsi; loro invece sono già a casa, e possono ala massimo accontentarsi di tuguri sovraffollati adattati a ospedali.
Una vita è sempre una vita. Non importa di che nazionalità. Ma è davvero così? I soldati italiani vanno a combattere per scelta. Sì, d'accordo, c'è poco lavoro, si guadagna bene, la famiglia e altre scuse quante possiamo trovarne per mettere a tacere la coscienza. Ma resta il fatto che è pur sempre una scelta. Potevi andare a fare l'operaio per romperti le ossa in fabbrica a 800 euro al mese e invece hai scelto di guadagnare sei volte tanto per andare a romperle ad altri, le ossa. E poi a natale si torna a casa a festeggiare. Una vita è sempre una vita? Siamo tutti uguali?
Gli afghani, invece, la guerra non l'hanno scelta. Se la sono trovata in casa un giorno. Si sono alzati la mattina, hanno guardato alla finestra e hanno visto che c'era la guerra: “una mattina mi son svegliato e ho trovato l'invasor”. Noi non abbiamo chiesto il loro permesso per invaderli.
I resistenti afgani, che noi chiamiamo terroristi, non hanno scelto loro di ammazzare quei 14 italiani. Se questi se ne fossero rimasti a casa non avrebbero torto loro un capello. Ma per quei 14 italiani non si può dire la stessa cosa. Siamo tutti uguali?
I bambini e le donne afgani massacrati, quelli rimasti senza una gamba, senza un braccio, senza un occhio, quelli che hanno perso la casa, che hanno perso i cari, i genitori, i figli, i fratelli, gli zii a causa della nostra “missione di pace”, tutti questi non lo hanno scelto. No. Non siamo tutti uguali.
Che la vita la perda uno che è andato a combattere chi non gli ha fatto niente in un paese straniero, per non andare a fare l'operaio, lo spazzino, il facchino, l'operatore di call center o il disoccupato, è triste, ingiusto, ma, dopotutto, comprensibile. Ma che la perda qualcuno che si è svegliato e ha trovato i carri armati nel cortile di casa, questo è qualcosa che va al di là di qualsiasi possibile comprensione.
In guerra si muore. E la guerra l'abbiamo voluta noi.