giovedì 29 aprile 2010

Sì, siete razzisti

Non ci sono più quei razzisti di una volta, che ce l'avevano coi “negri” e con gli ebrei e che di essere razzisti ne erano orgogliosi e lo ammettevano apertamente.

Oggi i razzisti si offendono se li chiami razzisti. Sono responsabili di comportamenti che sicuramente potrebbero essere qualificati come razzismo, ma non vogliono ammetterlo. Sono quelli che “prima gli italiani”, che vogliono favorire i nativi rispetto agli immigrati e che cacciano i bambini immigrati dalle mense scolastiche, che fanno morire le bambine extracomunitarie senza dare loro l'assistenza medica che la nostra Costituzione obbliga a dare, per tutti gli individui, non solo per quelli con la cittadinanza. Quelli che impediscono le costruzioni delle moschee, quelli che “gli immigrati ci rubano il lavoro e la casa”, quelli che “ se non vi sta bene potete cambiare paese”, quelli che “l'Italia agli italiani” oppure (altra versione di chi non può dire di amare un paese il cui tricolore usa per nettarsi l'ano) “padroni a casa propria”. Dopo che costoro hanno enumerato una serie di insulsi stereotipi, che ovviamente non sarebbero mai capaci di motivare e di argomentare se qualcuno gliene chiedesse ragione, aggiungono candidamente “io non sono razzista”.

Questa ipocrisia è qualcosa di insopportabile. Se volete seguire i fascisti in camicia verde, fate pure, ma ameno assumetevi la responsabilità delle conseguenze di questa scelta.

Cito da wikipedia alla voce razzismo:


Nella sua definizione più semplice, per razzismo si intende la convinzione che la specie umana sia suddivisa in razze biologicamente distinte e caratterizzate da diversi tratti somatici e diverse capacità intellettive, e la conseguente idea che sia possibile determinare una gerarchia di valore secondo cui una particolare razza possa essere definita "superiore" o "inferiore" a un'altra.

Più analiticamente si possono distinguere diverse accezioni del termine:

Definizione



  1. storicamente rappresenta un insieme di teorie con fondamenti anche molto antichi (ma smentite dalla scienza moderna) e manifestatesi in ogni epoca con pratiche di oppressione e segregazione razziale, che sostengono che la specie umana sarebbe un insieme di razze, biologicamente differenti, e gerarchicamente ineguali. Tra gli ispiratori ideologici degli aspetti contemporanei di questa teoria vi fu l'aristocratico francese Joseph Arthur de Gobineau, autore di un Essai sur l'inégalité des races humaines[1] (Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane, 1853-1855). Nel XIX secolo quello che sarebbe stato poi definito razzismo nel secolo successivo ebbe rilevanza scientifica, al punto da venire oggi chiamata dagli storici razzismo scientifico. Intorno al 1850 il razzismo esce dall'ambito scientifico e assume una connotazione politica, diventando l'alibi con cui si cerca di giustificare la legittimità di prevaricazioni e violenze. Una delle massime espressioni di questo uso è stato il nazionalsocialismo.

  2. in senso colloquiale definisce ogni atteggiamento attivo di intolleranza (che può tradursi in minacce, discriminazione, violenza) verso gruppi di persone identificabili attraverso la loro cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico o altre caratteristiche. In tale senso, però, sarebbero più corretti, anche se sono raramente usati nel linguaggio popolare corrente, termini come xenofobia o meglio ancora etnocentrismo

  3. in senso più lato, e di uso non appropriato, comprende anche ogni atteggiamento passivo di insofferenza, pregiudizio, discriminazione verso persone che si identificano attraverso la loro regione di provenienza, cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico, accento dialettale o pronuncia difettosa, abbigliamento, modo di socializzarsi o altre caratteristiche”.



Da World Reference.com: “la convinzione che alcune razze siano inferiori e quindi vadano trattate in modo diverso rispetto ad altre o addirittura sterminate

  • in generale l'atteggiamento di chi disprezza chi è diverso

Dal Sabatini Coletti: “1 Ideologia che, fondata su un'arbitraria distinzione dell'uomo in razze, giustifica la supremazia di un'etnia sulle altre e intende realizzarla attraverso politiche discriminatorie e persecutorie

  • 2 estens. Ogni atteggiamento o manifestazione di intolleranza"





È evidente quindi che con razzismo non si intende solo la credenza nell'esistenza di razza superiori e inferiori, ma questo termine con il tempo ha finito per designare anche l'intolleranza e la discriminazione nei confronti di una data cultura, etnia, religione, ecc.

Quindi comportamenti come privilegiare gli italiani rispetto agli immigrati, nelle graduatorie per le case popolari o nei sussidi, e via dicendo, possono essere definiti tranquillamente comportamenti razzisti.

Perciò che non si affannino più tutti questi sindaci, parlamentari e ministri leghisti a negare una qualità incontrovertibile dei loro elettori. Per la lingua italiana lo sono, e finché non viene inventato il padano dovranno accettare di essere chiamati razzisti, a meno che non smettano di comportarsi come tali. Perché quindi, avere, anche da parte di noi antirazzisti , un inutile riserbo nell'usare la lingua italiana? Sarebbe bene che quando, dopo un'affermazione del tipo “fuori dalle balle”, volessero aggiungere “ma non sono razzista” qualcuno facesse loro notare, dizionario alla mano, che invece lo sono eccome. Poi ognuno è libero di esprimere le proprie idee e anche i propri pregiudizi. Se vuole vivere in una società dove gli italiani vengono favoriti rispetto agli immigrati, hanno diritto di esprimere questa opinione, a patto però di assumersene la responsabilità e di accettare l'inevitabile e corretto epiteto di razzista.

martedì 27 aprile 2010

Cos'è il 25 aprile

Per quanto riguarda le polemiche che ci sono state sul 25 aprile vorrei dire anch'io la mia.

Il 25 aprile è la festa della Liberazione, non della "libertà".
Il 25 aprile è la festa degli italiani che si sono liberati, non degli americani liberatori.
Il 25 aprile è la festa di tutti quelli che considerano il fascismo un male, dall'inizio alla fine, non la festa dei fascisti riabilitati.
Il 25 aprile non è "la festa di tutti gli italiani" ma la festa di tutti gli italiani antifascisti.
Il 25 aprile è la festa di tutti coloro che odiano ogni genere di fascismo, vecchio o nuovo.
il 25 aprile è la festa di coloro e solo di coloro che non infangano la Resistenza e che non diffondono calunnie su di essa,
Il 25 aprile non è la festa di chi dice "gli americani ci hanno liberato sia dai fascisti che dai comunisti".
Il 25 aprile è la festa di chi è grato ai partigiani.
Il 25 aprile non è la festa di chi dice "Mussolini non ha ammazzato nessuno".
Il 25 aprile è la festa di chi si riconosce negli ideali su cui si fonda la Costituzione.
Il 25 aprile non è la festa di chi quella Costituzione vuole cambiarla per creare un governo autoritario e uno stato diviso.
Il 25 aprile è la festa degli italiani e dei non italiani che vivono e lavorano in Italia e che danno il loro contributo alla comunità.
Il 25 aprile non è la festa dei razzisti e degli xenofobi che vogliono un'Italia etnica.
Il 25 aprile è la festa di chi ha contribuito e contribuisce alla costruzione di un'Italia migliore, quindi più vicina a quella immaginata dai partigiani, con la sua militanza civile o politica, ma anche solo con il suo lavoro o con il suo impegno nella vita.
Il 25 aprile non è la festa di chi sfrutta il lavoro, di chi evade le tasse, di chi specula sui mercati, dei banchieri usurai, dei padroni che fanno morire gli operai, dei mafiosi e dei parassiti che succhiano il sangue di questa nazione.
Il 25 aprile è la festa di chi ama non una "libertà" astrattamente idealizzata, come una parola vuota e retorica, ma quella libertà che i nostri nonni che andavano sui monti a combattere hanno sognato e per cui hanno combattuto, quella libertà che adesso manca e che potrà essere trovata solo nella lotta contro i nuovi fascismi.

Tanto per mettere le cose in chiaro.

mercoledì 21 aprile 2010

Difendiamo la controinformazione

La mafia ha molti volti, ma sempre la stessa caratteristica, quella di intimidire chi tenta di dire la verità.
Diffondo perciò due appelli per il sostegno a due giornalisti, alla loro vita e alla loro attività. Uno di essi per il suo lavoro rischia la carriera, un altro addirittura la vita.

"Non lasciamo solo Gianni Lannes. Si batte per tutti noi"



"Era settembre 2009, ve la ricordate quella brutta storia di navi dei veleni affondate al largo delle coste calabresi? Quel traffico allucinante che va avanti da decenni facendo ammalare il popolo calabrese di tumori in modo insolitamente frequente e di cui a settembre la stampa parlò (solo) perchè un pentito di mafia tirò fuori questa storia…

Se ne era occupato (e se ne sta occupando tuttora) Gianni Lannes, un giornalista di Terra Nostra, che aveva indagato sulle società colluse con la ‘ndrangheta che si occupano di smaltire i rifiuti nucleari da piazzare su navi destinate all’affondamento. Do You Remember?

Come era “finita”, o meglio: cosa dissero i media prima che tornassero a non occuparsi piu’ di questa storia?

1) che la Prestigiacomo aveva smentito Lannes, dicendo che le navi affondate non erano navi piene di rifiuti radioattivi ma relitti della prima guerra mondiale :-D

2) Che Lannes propose a Prestigiacomo un incontro pubblico in cui avrebbe portato le prove (fotografiche e documentali) del fatto che si sta morendo tutti di acqua resa radioattiva da un traffico trentennale di navi piene di rifiuti affondate nel Tirreno e che la Prestigiacomo si è guardata bene dall’accettare di presenziare a un qualsivoglia confronto con Lannes

3)Lannes (che, nel frattempo minacciato da anonimi l’hanno messo in guardia sull’incolumità sua e del suo bimbo piccolo, se avesse continuato ad occuparsi di ’sta brutta storia aveva ottenuto di girare sotto scorta) si era riproposto di presentare ad Aprile in parlamento una documentazione riassuntiva completa sul fenomeno dell’affondamento di queste navi

4) e mò che siamo ad aprile Lannes è stato di nuovo pesantemente minacciato: lui, la sua famiglia e i collaboratori dell’organizzazione “Terra nostra” che Lannes dirige.
Non dimentichiamoci di Gianni Lannes. Ricordiamolo sempre nei blog, lui e la sua battaglia, pericolosissima, per la verità e per la salute di noi italiani. Non è famoso e ricco come Saviano, ma è altrettanto in pericolo, se non di piu’. Riporto il comunicato su queste ultime minacce a quest’uomo coraggioso e idealista. Non lasciamolo solo: sta combattendo per tutti contro un nemico gigantesco e apparentemente invincibile.

da Terra Nostra, di cui Gianni Lannes è il direttore.
Ben 4 telefonate anonime alle 6,30 del mattino hanno raggiunto e colpito la famiglia di Gianni Lannes. Il noto cronista è impegnato attualmente nelle battute finali della fruttuosa inchiesta giornalistica sull’affondamento nel Mediterraneo di navi, container, droni, penetratori e barili di rifiuti chimico-radioattivi. A tutt’oggi secondo le disposizioni del ministero dell’Interno il cronista gode di un livello di tutela della Polizia di Stato addirittura minimo. Il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo ha rifiutato il contraddittorio televisivo sullo scottante tema proposto da Lannes prove alla mano".

da Agorà di Cloro


"FARLA FINITA CON FULVIO GRIMALDI"


















"Questa è davvero personale, però con implicazioni che non faticherete a vedere
quanto siano generali. Qui sotto riproduco un appello a formare un gruppo di sostegno che ho inserito in facebook. E' in gioco qualcosa di più vasto e importante della salvaguardia di questa voce. Voce che molti di voi troveranno discutibile e anche insopportabile, che altri condividono e credono che debba sopravvivere. Se siete tra costoro, vi chiedo di aggiungervi alla lista che a oggi, in meno di cinque giorni, ha raggiunto i mille firmatari. E se poi ci credete e volete fare un ulteriore sforzo, potete anche indirizzare una lettera al quotidiano Liberazione. Forse tutto questo non servirà a impedire che i compagni del PRC mi inceneriscano, ma sarà quantomeno una prova che l'abuso, la censura, la tracotanza di qualsiasi potere, la soppressione di chi, nel nome della verità, osa dissentire da un qualsiasi vertice, non passano lisci.

Vi ringrazio.
Testo su facebook

Cari amici che avete la generosità di aver seguito e di seguire il mio lavoro a suo tempo sui giornali e in tv (Tg3), ora in rete (www.fulviogrimaldicontroblog.info) e con i video (documentari sulle situazioni di conflitto), vi racconto una vicenda del tutto esemplare per il quadro in cui ci muoviamo. E vi chiedo adesioni e supporto. Potrebbero essere importanti per l’esito finale.

Il 9 maggio del 2003, collaboratore a contratto del quotidiano del PRC Liberazione, scrivevo nella mia rubrica un articolo su recenti accadimenti a Cuba che avevano visto la condanna a morte di tre terroristi, dirottatori a mano armata di un’imbarcazione cubana, e a pene detentive di altri 75. La valutazione di quei fatti non corrispondeva a quella data dall’allora segretario nazionale Fausto Bertinotti, né tantomeno allo tsunami di attacchi a Cuba da parte della destra mondiale, unanimi tutti nel deplorare il trattamento riservato a “intellettuali e giornalisti dissidenti”. Le mie informazioni, poi nel tempo confermate da documenti incontrovertibili, mi avevano fatto invece rivelare nell’articolo come quei “democratici dissidenti” fossero al soldo degli Stati Uniti e stessero preparando una campagna di azioni terroristiche, di cui il dirottamento sarebbe stato solo il primo. Erano cioè mercenari al soldo di uno Stato che lavorava per la distruzione della rivoluzione cubana. Il giorno successivo alla pubblicazione del pezzo, in cui peraltro deploravo quella come tutte le condanne a morte, fui licenziato su due piedi, pur nel pieno di una campagna del PRC in difesa dell’articolo 18 aggredito. Non ricevetti la lettera di prammatica del direttore, Curzi, ma solo una telefonata dell’amministratore. Chiesi di ricevere una comunicazione ufficiale. Non la ricevetti. Ma alla rabbia di numerosi lettori e compagni del PCR, che si espressero contro il brutale provvedimento con oltre 2000 firme, Bertinotti, Curzi e la vice-direttrice Gagliardi risposero sul giornale e su altri mezzi d’informazione (Il Foglio, Radio Anch’io), affermando cose false: che avrei deviato dal tema assegnatomi, l’ambiente, o che avrei deviato dalla linea politica del partito.

La prima giustificazione era falsa, perché fin dal primo giorno della mia collaborazione, 1999, avevo potuto occuparmi in articoli e rubriche di ogni tema che volessi scegliere. Una smentita radicale veniva poi dalle mie corrispondenze di guerra dai conflitti nei Balcani, in Palestina e in Iraq, tutti viaggi effettuati a spese mie. Anche la seconda spiegazione era indebita, giacchè della linea politica della maggioranza si trattava semmai, non di quella di tutto il partito, in quanto una forte minoranza appoggiava le mie valutazioni. Inoltre era sempre stato affermato dai vertici del partito che nel partito stesso, come nel giornale, doveva essere rispettato il massimo della dialettica e del pluralismo. Un articolo dello Statuto del PRC garantiva addirittura il diritto degli iscritti di manifestare le proprie critiche alla linea del partito, perfino all’esterno del partito stesso. Il diritto di replica alla false affermazioni dei vertici, assicurato dalla legge sulla stampa, mi venne sistematicamente negato.

Da questa vicenda ricavai un forte danno, oltreché morale, professionale, di perdita di credibilità e di prestigio tra compagni e lettori, anche di riduzione del bacino di coloro che erano interessati ai miei documentari e libri. Feci causa e la vinsi. Il risarcimento del danno fu calcolato dal giudice in 100mila euro. Ora, sette anni dopo, il giudice d’appello, contravvenendo a una consolidata giurisprudenza in materia di cause di lavoro, ha rovesciato tale sentenza e mi ha imposto di restituire quella somma. Somma, che forte appunto di quella giurisprudenza, ho impegnato in gran parte nei viaggi che mi hanno permesso di realizzare i miei documentari da Iraq, Palestina, America Latina, Balcani. Si ricordi che quando vinsi la causa, Bertinotti era il segretario di un piccolo partito di opposizione, quando si avviò l’appello, però, l’uomo aveva assunto la terza carica dello Stato.
A dispetto della sostanziale ingiustizia del provvedimento, ho offerto alla controparte una transazione per metà della somma. E’ stata respinta e mi si è manifestata l’intenzione di arrivare all’esecuzione, cioè al pignoramento di quanto possiedo. Sarebbe la fine della mia attività di militanza giornalistica, con ovvia soddisfazione di non pochi. Ho scritto a Paolo Ferrero, segretario del PRC, a Dino Greco, direttore di Liberazione, e a Roberto Natale, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Ad oggi, nessuna risposta.

Credo che a questo punto solo una forte pressione di quel pezzo di società che crede nell’informazione libera e nella libera espressione del pensiero, specie in un giornale e in un partito che si dicono comunisti, possa convincere i responsabili dal recedere da un comportamento che viola ogni principio normativo, etico e deontologico della mia professione. In attesa di altre iniziative cui sto pensando, come una conferenza stampa e uno sciopero della fame davanti alla sede di Liberazione e del PRC, chiedo alle persone di buona volontà di esprimere qui e in tutti i modi la solidarietà a questa causa di democrazia, giustizia e libertà. A una voce che rischia di essere soppressa. Grazie a tutti".

da Mondocane

lunedì 19 aprile 2010

La famiglia prima di tutto

È un paese, l'Italia, che va dritto verso il collasso, sociale, civile ed economico.
Un paese che ha vissuto una breve, troppo breve, stagione di quel riscatto tanto atteso nei secoli passati e che adesso sta ripiombando velocemente nell'abisso.
È difficile trovare un settore, della sfera economica, politica, sociale o culturale, che non sia attraversato da una crisi profonda e strutturale. Va male l'economia, ben prima della crisi internazionale, le istituzioni politiche sono sempre più corrotte e distanti dalle esigenze della gente, le diseguaglianze sociali sono sempre più marcate, non c'è lavoro, non c'è possibilità di miglioramento se non per i più ricchi e stiamo scivolando verso comportamenti razzisti, intolleranti, cinici e abietti.
Le piaghe non solo di questo paese, ma che in questo paese si fanno sentire con una brutalità singolare, le conoscono un po' tutti e non c'è quindi da stare qui a elencarle.
Ma invece di porvi rimedio, cercare nuove strade, sembriamo invece fare di tutto per aggravarle, le soluzioni prospettate spesso si rivelano inefficaci quando non favoriscono addirittura l'effetto opposto a quello desiderato. Intellettuali, studiosi, politici, si affannano per fornire delle analisi e mettere appunto contromisure, tutte da un unico punto di vista, tutte parziali, nessuna che tenti una lettura complessiva della situazione. Un economista dirà che il debito pubblico è troppo alto, un politologo che la burocrazia è troppo costosa, un giurista che i procedimenti giudiziari sono troppo lunghi e farraginosi, un giornalista che l'informazione non è libera a sufficienza.
Tutti prestano attenzione agli effetti particolari e mai alle cause generali, riguardo al nostro paese, e che rendono quei mali particolarmente virulenti e cronici, e perciò ancor più difficili da contrastare.
Gli anni d'oro ormai terminati (o quelli che adesso ci sembrano tali) poggiavano evidentemente su basi fragili. È un paese strano. In cui convivono i picchi di enclavi avanzate e sviluppate e baratri di zone depresse e arretrate. Un paese dotato nel bene e nel male di una varietà impressionante, sia dal punto di vista geografico che antropologico. Un paese diviso, frammentato, caratterizzato non solo dalle scissioni e dalle lacerazioni tipiche della società moderna, ma che sembra carente di qualsiasi base di comune condivisione, sotto tutti i punti di vista e di qualsiasi meccanismo tanto per arginarle quanto per superarle. Un paese che si indigna per la corruzione di un politico, ma che è incapace di rispettare anche la più elementare norma del codice stradale. Un paese che dona soldi in beneficenza, ma che è capace di lasciare ammazzare un proprio concittadino in mezzo alla strada, senza che nessuno intervenga. Un paese che si indigna per una prostituta in mezzo alla strada, ma che lascia che una bambina sia violentata in una scuola. Un paese che ha scritto nella propria costituzione di essere fondato sul lavoro e che tuttavia permette la morte di migliaia di lavoratori nelle proprie fabbriche e nei propri cantieri. Un paese che si vanta di essere accogliente e che rinchiude gli immigrati in campi di internamento.
Queste contraddizioni tra una morale pubblica ufficiale e le prassi effettiva della vita quotidiana, sono inscritte nello stesso modus vivendi dell'italiano medio.
Questo italiano ha due punti di osservazione: da una parte la società, l'istituzione, la legge, un insieme astratto avvertito come qualcosa di impersonale e distante, che accetta per necessità, per abitudine, per conformismo; dall'altra gli individui con cui egli si rapporta quotidianamente durante la propria vita e che a lui sono legati da rapporti di collaborazione professionale, di amicizia o di parentela.
Mentre nei momenti solenni e ufficiali viene privilegiato il primo, con grande sfarzo e in pompa magna, con un uso spropositato della retorica, nella vita di tutti i giorni prevale decisamente il secondo e si annienta quasi del tutto il primo. Ad avere la meglio cioè, nella pratica, invece che nei discorsi, sono le relazioni personali dell'individuo. E con personale non è da intendersi meramente individuali, ma anche familiari, associative e corporative. Siccome il momento ufficiale e istituzionale, per arrivare al singolo, deve passare inevitabilmente per una qualche forma di relazione tra individui, è quest'ultima a prevalere nella sua singolarità, venendo del tutto a mancare invece la coscienza dell'universale, la presenza nel proprio modo di agire di un'idea, un'attitudine, un abito mentale che trascende la relazione personale pura e semplice che avviene in quel momento, in sostanza, una morale pubblica. Non si tratta di un atteggiamento immorale e nemmeno antagonistico. In entrambi questi casi, infatti, ci sarebbe comunque una consapevolezza e un sentimento della presenza di questa coscienza, seppure in negativo. Si tratta invece dell'assenza di qualsiasi riferimento ad essa, se non in modo molto flebile e superficiale, nelle normali relazioni tra individui o gruppi di individui. Indifferenza.
Persino il momento che dovrebbe essere di massima espressione di quella coscienza, di quella morale, la partecipazione politica attraverso il voto, finisce spesso per essere annientato nella comunanza di interessi e di rapporti personali.
Alle elezioni, quelle locali soprattutto, si vota il parente, il cugino, lo zio, oppure il conoscente che ci chiede il voto. Non c'è alcun riguardo per le idee politiche di ognuno e nessuno ne ha per le proprie. Bisogna votare per i membri della famiglia o del gruppo di persone con cui si ha una qualche relazione personale, anche se hanno idee politiche opposte alle nostre. Ci si candida con liste che diversamente non si sarebbero mai votate e si chiede di votarle a chi non lo avrebbe mai fatto. Ma il voto è un dovere, in ambito familiare, o tribale, magari corporativo, perché il nostro collega ottenga un taglio delle tasse per la nostra categoria. Si vota il vicino che ci ha promesso di farci ottenere i finanziamenti dalla regione per un alluvione che non ci ha mai colpito, si vota qualcuno che poi dovrà restituirci il favore quando saremo noi a candidarci, magari con una lista avversaria. Tutto ciò favorisce il venir meno dei propri ideali, annacquati in un guazzabuglio di compromessi e di interessi del microsistema in cui viviamo. Se la crisi delle ideologie e dei partiti politici si fa sentire nel nostro paese più che negli altri questa è una delle ragioni. Bisogna portare avanti gli interessi della famiglia, della tribù, del clan. Anche allo scopo di scavalcare quelli collettivi, i principi di una morale dichiarata e sempre sistematicamente tradita nei fatti. Ci si scandalizza quando i politici usano il proprio ufficio per perpetuare questi comportamenti, i quali non sono in realtà nient'altro che la prosecuzione della logica familistica con altri mezzi. Il do ut des regna nel nostro paese da tempi immemorabili. Vota per me che io voterò per te. Fai qualcosa per me che io ricambierò il favore. Il gruppo protegge i propri membri, che fuori da questo gruppo non sono più nessuno. Siamo il paese dei piccoli comuni, che durante il Medioevo riuscirono a dare seri grattacapi ai sovrani, siamo il paese delle corporazioni, che continuano a resistere alla storia e ai cambiamenti e perpetuano testardamente i privilegi dei propri appartenenti. Siamo il paese che è stato dilaniato dalle signorie, dagli staterelli tanto piccoli quanto arroccati e l'un contro l'altro armati, che per spuntarla in questa guerra intestina andavano a chiedere sempre aiuto al Papa o alle monarchie europee. Un paese che godeva di uno sviluppo economico e industriale di primo livello che è stato vanificato dalla litigiosità politica, dalle tante tribù allargate che pretendevano di fare stato a se. La Spagna senza avere un'economia florida, aveva uno stato potente e con esso riuscì a dominare a lungo la scena internazionale, l'Italia, al contrario, aveva un'economia florida ma neanche uno straccio di stato e la qual cosa finì per compromettere anche la sua economia.
Siamo il paese in cui, nei tempi della globalizzazione, continuano a resistere e a diffondersi le tante piccole imprese a conduzione familiare, coccolate dai politici e dagli economisti, nonostante ci stiano portando sull'orlo della catastrofe economica. Continua a resistere il mito della fattoria, del falansterio dove la famiglia vive e produce, condotta da un padre padrone benevolo e da laboriosi figli dipendenti. È la struttura familiare che viene trasferita all'industria. Questa mitizzazione della piccola impresa stenta a scomparire, eppure è tra le maggiori cause della spropositata diffusione del lavoro nero o sottopagato e dell'evasione fiscale delle imprese. I Comuni, le Regioni, e infine lo Stato che ne è succube, sono tutti protesi verso di loro, nonostante siano incapaci di stare sul mercato, causando periodicamente la rovina di migliaia di persone, assolutamente inadeguate a reggere durante i periodi di crisi. Le corporazioni della arti e dei mestieri hanno sempre tenuto un alto steccato attorno al proprio territorio, perché nessun altro vi entrasse, formando una setta professionale selezionatissima, impossibile da penetrare. Anche in economia vige la legge del clan.
Avvocati, magistrati, commercialisti, notai, commercianti, artigiani, imprenditori e banchieri, tutti formano le loro congreghe e le loro sottocongreghe per trasmettere il loro mestiere di padre in figlio e per impedire la contaminazione con gli individui provenienti da altre famiglie. Né imperatori, né parlamenti eletti hanno mai potuto far nulla contro di loro, perché il familismo contagia tutti e raggiunge chiunque, anche ai livelli più alti. In questo è assolutamente egualitario, non c'è nessuno che possa sfuggire al suo controllo clanistico.
La famiglia allargata, la tribù, il clan, è solido come una roccia, ha un modo infallibile di proteggersi. Impone ai propri membri il silenzio, circa le proprie attività, se ne parla solo all'interno e mai all'esterno. Se un membro infrange le regole, viene punito solo se nuoce agli altri membri del gruppo e sempre e soltanto all'interno del gruppo e con la massima discrezione. Non per niente siamo il paese delle associazioni segrete, della massoneria, dei servizi deviati, dei gruppi terroristici, dei golpe tentati attraverso oscure trame in cui mai nessuno è riuscito a vedere a fondo. Delle sette sataniche e di quelle religiose, che abusano di donne e bambini, impenetrabili per decenni alle autorità e alla legge dello stato.
Nel nostro paese per millenni sono stati perpetrati gli abusi dei preti sui bambini, senza che nessuno dicesse nulla o lasciasse trapelare nulla. Chi sapeva taceva o fingeva di non sapere oppure si costringeva a dimenticare. I genitori si dicevano che erano fantasie infantili, per tranquillizzarsi, i compaesani respingevano le parole di qualche fanciullo, o che qualche parrocchiano più ingenuo si è lasciato sfuggire, come un'impertinenza, una maldicenza. La Chiesa ha sempre fatto di tutto per nascondere i propri scheletri nell'armadio, coprendo le nefandezze dei propri “pastori”. Ma neanche i laici e le persone ostili alla Chiesa hanno avuto l'ardire di denunciare quanto accadeva. Nessuno scrittore, intellettuale, politico. La famiglia non si tocca, neanche quella degli altri, perché altrimenti questa poi potrebbe rivalersi sulla propria. C'è voluta la potenza della televisione e le denunce, da altre nazioni, perché si aprisse uno squarcio di verità.
Questa omertà non è qualcosa di perfettamente cosciente, ma che impregna la vita dei paesini, quei paesini microscopici, che resistono ancora nonostante tutto, la vita delle contrade, di cui le città italiane più cosmopolite vanno orgogliosamente fiere, e finisce per raggiungere le metropoli e i palazzi del potere.
Non per niente siamo il paese della mafia, della camorra, della 'ndrangheta, della sacra corona unita, della mafia del brenta. Una mafia che nessun governo sembra mai potere e volere distruggere. Una mafia che è nata come modesta milizia di ladri di polli e di pastori e che è diventata una delle più grandi organizzazioni criminali al mondo e uno gruppo di potere capace di infiltrarsi ovunque. Senza mai perdere la propria struttura, anzi rafforzandola, assieme ai propri riti e alle proprie cerimonie arcaiche, ai propri linguaggi cifrati, a sigillare ogni nuovo patto d'affari.
Siamo un paese che è dominato da quello che il sociologo americano Edward Banfield definiva familismo amorale, la presenza ossessiva e pervasiva del retaggio familiare, l'assenza di regole se non all'interno della struttura parentale.
Così onoriamo un impegno con un parente in modo molto più scrupoloso che una legge o una norma etica. Un divieto stradale si può infrangere, le tasse si possono evadere, le file alla cassa si possono superare, ma non si può mai tradire la fiducia di un parente o di un amico, un nipote deve essere raccomandato, per fargli ottenere un posto o una promozione, un cognato potrà grazie a noi passare attraverso corsie preferenziali per sbrigare una pratica in poco tempo evitando le lungaggini burocratiche.
La famiglia viene prima della legge dello stato e della morale pubblica.
Questo paese è stato così bene descritto da Federico De Roberto nei Viceré, un romanzo troppo spesso ignorato, e a cui nelle scuole viene preferita l'operetta morelaggiante dei Promessi Sposi, e che narra le vicende di una famiglia aristocratica, che attraverso varie traversie, finisce sempre per conservare la propria posizione di potere, sotto i Borboni, come durante l'Italia unita. Tutti possono fare qualsiasi cosa, prendere parte a qualunque azione e a qualunque guerra, stare dalla parte dei Borboni, o da quella di Garibaldi, nella destra o nella sinistra, purché ad essere portati avanti siano sempre gli interessi della famiglia e del clan. Secondo la massima di Gaspare Uzeda, parodia della celebre frase di Massimo D'Azeglio, fatta l'Italia dobbiamo fare gli affari nostri.
Siamo inflessibili, nelle prese di posizione ufficiali, ma le trasgrediamo volentieri nella pratica. Non siamo capaci di tenere uniti i due piani, quello etico e quello personale, cosicché il primo vive solo nei bei discorsi e rimane del tutto distaccato dal secondo, che invece si autogoverna secondo proprie leggi, le leggi dell'interesse reciproco, la legge del clan, della congrega.
Non a caso tutte le ideologie universalistiche, che cercavano di realizzare un ideale di società fondato su leggi universali e uguali per tutti, nel nostro paese sono miseramente fallite, laiche o religiose che fossero.
Il cristianesimo delle origini, che asseriva l'uguaglianza di tutti gli uomini, sarebbe stato piegato e manipolato secondo le esigenze egemoniche e settarie del cattolicesimo. L'umanesimo, doveva schiantarsi contro il muro degli interessi corporativi ed ecclesiastici. L'illuminismo non ha mai attecchito veramente nel nostro paese, come dimostra la persistenza della superstizione, delle sette religiose, di tradizioni arcaiche e anacronistiche, delle statue dei santi di paese portate a spasso per le piazze, della fede irrazionale nei miracoli e nella sua traduzione moderna, ovvero le lotterie e i gratta e vinci che invadono l'Italia, come dei giri di scommesse sportive. Il repubblicanesimo risorgimentale, che voleva unificare l'Italia, riuscì a farlo solo ufficialmente, lasciandola però intatta nelle sue disparità, economiche, linguistiche e culturali. Perché i clan hanno proprie lingue e proprie tradizioni. L'antifascismo e la Resistenza, che volevano costruire un'Italia su nuove basi di giustizia e libertà e che lo dichiararono in una delle costituzioni più avanzate al mondo, non poterono nulla contro il potere della famiglia. Il marxismo, infine, ultimo di una lunga serie, che voleva unire la classe operaia per riscattarla, doveva infrangersi contro la diffusione delle parrocchie e la fede dei parrocchiani, tutti stretti attorno al loro sacerdote che dice loro come votare.
La scissione dei lavoratori, poi, in tempi più recenti, in varie conventicole, ognuna legata al proprio padrone, ai propri capetti aziendali finendo ognuno per imitarne gli atteggiamenti servili, avrebbe finito per dare il colpo di grazia agli ideali di riscossa sociale.
Anche oggi, ai tempi del liberismo sfrenato e del dio mercato, l'unica ideologia che gli italiani hanno abbracciato tutti quanti insieme ripudiando le altre, il Capitale internazionale non ha annullato i clan medievali, semmai li ha convertiti al proprio credo, li ha resi suoi servitori, ma questi continuano a resistere e a prosperare. Le aziende, anche le più grandi e moderne, continuano ad assumere i figli dei propri dipendenti; le pubblicità idealizzano la famiglia e il ruolo della donna al suo interno, bellissima, curatissima e all'ultima moda, è sempre subalterno.
Sembriamo conquistati da una nuova moda politica, come ne abbiamo vissute tante, quella dell'unico partito dell'estrema destra d'Europa che sia regionale e autonomista, che chiede a gran voce il federalismo, diventato un mantra per tutta la classe dirigente. In questo modo si disintegra ciò che rimane dello Stato, per tornare al “territorio”, alle regioni, ai comuni microscopici e alle province. Teniamo fuori tutti quelli che non sono nati nel nostro villaggio insignificante e restiamo arroccati alla nostra cultura, alla nostra tradizione, alla nostra etnia. Diamo più potere ai sindaci, diamo alle regioni l'autonomia fiscale. Rinchiudiamoci nei nostri clan, nelle nostre famiglie allargate, mentre il mercato spregiudicato intanto ci lascia fare, ma prima o poi ci travolgerà.
Noi italiani siamo impotenti di fronte al familismo, perché esso è parte integrante della nostra “italianità”. Ecco perché invece che arroccarci, dovremmo cambiare l'aria, aprire le porte e far entrare aria fresca da tutto il mondo, e lasciare che gli immigrati aboliscano i nostri clan e le nostre connivenze. Sono loro, gli unici che possono salvarci. Non è per umanitarismo che dobbiamo favorire l'immigrazione. È per noi stessi, perché quello che siamo, ci sta portando alla rovina. Perché l'italiano così come è oggi non è in grado di cambiare e deve perciò contaminarsi con altre popolazioni e altre culture.

venerdì 16 aprile 2010

Fate largo ai buoni!

Ha avuto senz'altro un merito, la puntata di ieri di Annozero, quello di permettere che in Italia si tornasse finalmente a parlare di guerra. Perché immersi come siamo nei nostri teatrini filo o antiberlusconiani, c'eravamo dimenticati di un popolo sotto assedio, ostaggio di due regimi, quello dei talebani, come quello degli americani “esportatori di democrazia”.
C'è voluto il rapimento di tre cittadini italiani, nonché volontari di una delle più stimate organizzazioni umanitarie, perché ce lo ricordassimo. A dire il vero, la puntata è stata inframmezzata dalla discussione tra Di Pietro e La Russa (che certo non interessava i nostri concittadini rapiti) sulla politica interna. Però, ci si è ricordati che esiste una guerra in corso a cui noi diamo il nostro sanguinoso contributo.
Certo, abbiamo dovuto assistere alle arrampicate sugli specchi di La Russa, che cercava in tutti i modi di difendere la posizione del governo italiano, che è apparso un po' a tutti come lo zimbello della coalizione, il ventre molle, quello che anche un pupazzo come Karzai può permettersi di schiaffeggiare senza temere seri contraccolpi. Vedevamo il nostro ministro che si affannava per spiegare come l'esecutivo fosse intento a lavorare per la liberazione dei rapiti (perché di questo si è trattato, di un rapimento) con le letterine. Peccato, che nessuno gli ha fatto notare che, sperando che il governo sia davvero interessato alla liberazione dei suoi cittadini, dovrebbe rivolgersi direttamente agli americani, o agli inglesi, piuttosto che agli spaventapasseri del governo afghano per corrispondenza. Basterebbe, è evidente, una parola di Obama o di Brown, perché i nostri connazionali siano liberati.
Ma il nostro governo, dicevamo, è talmente lo zimbello della coalizione, a causa del suo servilismo, che non ha evidentemente il coraggio per tentare una simile richiesta.
La speranza, l'unica, che a questo punto possiamo avere, è che, avendo le truppe afgane e l'Isaf, raggiunto il loro deprecabile scopo, la cacciata di Emergency dalla zona, e la privazione delle cure mediche per centinaia di civili, restituiscano alle famiglie i volontari rapiti, non avendo più interesse a trattenerli.
Il Ministro La Russa pensa di liberare i tre con le letterine e riponendo le sue speranze in queste velleità pensa che anche le dichiarazioni di Strada possano influenzare la sorte dei prigionieri. Come se queste non fossero già note a tutti, come se l'esercito di coalizione non fosse mosso da interessi di ben altro tipo. Ma come si sa, noi non siamo lì per obbedire ai diktat di Washinghton e per permettere alle nostre multinazionali di partecipare alla spartizione del Medio Oriente assieme a quelle degli altri paesi, bensì, per portare la pace e la democrazia, anche se in tutto questo tempo, non si è avuta né l'una, nell'altra (come sarebbe possibile pace e democrazia sotto le bombe?). E allora alla domanda di Santoro (quanto tempo dobbiamo restare ancora in Afghanistan? È legittimo pensare che prima o poi dovremmo andarcene?) La Russa risponde che il ritiro è previsto per il 2011, ma rendendosi conto lui stessa della scarsa credibilità di questa affermazione, precisa che poi potrebbero esserci dei rinvii, per chissà quali improrogabili necessità e, aggiunge, buttandosi la zappa sui piedi, “come in Kosovo”. Si, infatti, come in Kosovo.
Certo, abbiamo dovuto assistere all'equilibrismo di Di Pietro che da un lato difendeva Emergency e si dichiarava contrario alla guerra e dall'altro, cercando di salvare capre e cavoli, tentava di difendere la scelta del suo partito di astenersi nella votazione sul rifinanziamento della missione “per rispetto ai nostri soldati”. Ma come? Che significa? Dici di essere contrario a questa guerra, i tuoi elettori lo sono, gli italiani lo sono, quindi voti contro? No! Ti astieni! Dunque immaginiamo che l'Italia dei Valori debba astenersi anche sul legittimo impedimento per rispetto dei magistrati!
Ma la acrobazie più strepitose le ha compiute il grande esperto di strategie (di diffamazione) Edward Luttwak, al cui confronto La Russa sembra quasi un pacifista.
Il nostro geniale stratega, non sapendo evidentemente in quale maniera deturpare l'immagine di una organizzazione che gode di grande rispetto presso la comunità internazionale, nonché presso tutte le popolazioni che assiste e che cura, ha pensato bene di mantenersi sul vago. Ci sarebbero delle Ong, che sostanzialmente pagherebbero le milizie nemiche per distribuire cibo alla popolazione. Ovviamente egli si guardava bene dal dire quali sarebbero queste Ong, e senza alcuna prova ci mette dentro tutte, anche Emergency, che cibo non ne distribuisce, ma cura i feriti, cerca di salvare la vita dei civili che le aggressioni dei talebani e degli amici di Luttwak costringono negli ospedali di Emergency. Si guardava bene dal ricordare come gli unici a finanziare i talebani fornendo loro armi e preparazione militare siano stati quelli del suo governo e della CIA, quando faceva comodo, quando bisognava darei ai sovietici “il loro Vietnam”, prima che questa tattica finisse per ritorcersi contro proprio chi l'aveva messa in atto.
Affermazioni talmente sconclusionate e prive della benché minima credibilità da suscitare il riso amaro di Gino Strada, il divertimento imbarazzato di tutti gli astanti e persino le prese di distanza di La Russa che si è sentito in dovere di dire che Emergency non poteva rientrare nella descrizione che Luttwak aveva fatto.
Vista la malaparata, il grande stratega, ha pensato bene di cambiare strategia. Quindi ha avuto la geniale idea di straparlare circa il presunto aiuto che i volontari di Emergency fornirebbero ai talebani curando i loro feriti “che così possono ritornare a combattere”. Evidentemente l'organizzazione di Gino Strada non può chiedere la carta d'identità ai feriti, per vedere se sono civili o talebani o membri delle forze afghane. Cura qualsiasi ferito, di qualsiasi etnia, di qualsiasi esercito e di qualsiasi parte in causa. Questo fanno e hanno sempre fatto i buoni medici e il buon personale sanitario di tutte le parti del mondo.
Senza considerare che si potrebbe ribaltare il ragionamento di Luttwak e dire che Emergency aiuta anche le truppe e la polizia afghane curandone anche i suoi feriti, non essendoci altri ospedali nel territorio se non quelli gestiti dalla medesima organizzazione. Ma evidentemente questa semplice constatazione sfuggiva al grande esperto di guerra. Come anche sfuggiva che una guerra in corso da nove anni, come faceva notare Gino Strada, finora non ha prodotto risultati apprezzabili per la popolazione, ma l'unico a non essersene accorto è proprio Luttwak.
Così ha cercato ancora di sviare l'argomento “ma allora gli americani non dovevano liberare l'Italia dai nazisti?” esempio decisamente fuoriluogo, nessuna attinenza con la situazione attuale. Ci sono tre differenze che ancora una volta il grande esperto non coglieva. La prima è che gli afghani non hanno chiesto l'intervento delle truppe americane nel loro territorio, contrariamente a quanto fecero allora gli italiani e tutti i paesi occupati dai nazisti. La seconda è che gli americani non sono andati a liberare il territorio afghano da una potenza straniera, perché erano appunto loro stessi la potenza straniera occupante. Se i talebani sono un regime spietato e dispotico lo erano anche i governi di Hitler e di Mussolini, che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non si sognarono mai di combattere (anzi!!) finché non iniziarono una politica aggressiva contro altri paesi (come appunto fanno ora gli americani) divenendo una minaccia per il mondo intero. La terza è che il pericolo per il mondo del governo talebano non è neanche minimamente paragonabile a quello che rappresentò il Terzo Reich, dotato di un potentissimo esercito e intenzionato a conquistare il pianeta, caratteristiche che certo non si possono attribuire ai miliziani talebani o al vecchio governo di Saddam, così come non si possono attribuire ai pakistani, dotati di una potenza bellica ben superiore rispetto a questi ultimi e con cui tuttavia gli Stati Uniti decisero di allearsi. Tutto questo evidentemente è troppo difficile da capire per il consumato stratega.
Ma la ciliegina sulla torta la si è avuta quando Travaglio gli ha chiesto, cito ovviamente a memoria: “Scusi Luttwak, ma lei all'inizio non era contrario alla guerra?”. La risposta esilarante è stata: “sì, ero contrario perché ero egoista”. Ah! Ecco! Lui era “egoista”, invece, George Bush e il suo governo, immaginiamo, fossero “altruisti” e si preoccupavano per le sorti degli afghani! Davvero qui siamo al livello delle favole per bambini. Fate largo ai buoni che sbaragliano i malvagi terroristi!


giovedì 15 aprile 2010

La Bolivia in prima fila

"Roma, 14 apr. (Apcom-Nuova Energia) - Quello che si annuncia come l'evento ambientale di tendenza dell'anno si apre lunedì in Bolivia, dove presidenti, politici, intellettuali, scienziati e star di Hollywood si uniranno a 15.000 rappresentanti delle popolazioni indigene e a migliaia di associazioni locali di oltre 100 paesi per discutere il cambiamento climatico in uno dei paesi più poveri del mondo. La Conferenza mondiale dei popoli sul cambiamento climatico e i diritti di Madre Terra, che si terrà da lunedì a giovedì prossimi nella cittadina boliviana di Cochabamba, non avrà alcuna influenza sui negoziati Onu sul clima che impegnano 192 paesi. Ma il presidente boliviano Evo Morales spera che dia voce ai popoli più poveri della Terra e spinga i governi ad essere più ambiziosi dopo il fallimento del vertice di Copenaghen. Morales annuncerà in occasione del convegno il più grande referendum mai tenuto a cui parteciperanno fino a due miliardi di persone e che riguarderà le scelte per uscire dalla crisi climatica. La Bolivia vuole creare anche una carta Onu dei diritti sul clima e istituire un Tribunale internazionale sui crimini ambientale. "L'unico modo per far ripartire il negoziato, non solo per la Bolivia o altri paesi, ma anche per la vita nel suo complesso, la biodiversità, la nostra madre terra, è di riportare la società civile nella trattativa. L'unica cosa che può salvare l'umanità dalla tragedia è l'esercizio della democrazia globale" ha detto a Bonn L'ambasciatore boliviano alle Nazioni unite Pablo Solon. "Non ci saranno discussioni segrete dietro porte chiuse. Il dibattito e le proposte saranno avanzate dalle comunità in prima linea sul cambiamento climatico e da organizzazioni e persone della società civile impegnate ad affrontare il problema climatico" ha aggiunto. Oltre 90 governi manderanno delegazioni a Cochabamba. Sono attesi scienziati come James Hansen, il regista di Avatar James Cameron, il linguista Noam Chomsky, la sociologa canadese Naomi Klein, l'attivista anti-globalizzazione francese José Bové e gli attori hollywoodiani Danny Glover, Robert Redford e Susan Sarandon. La conferenza coincide con la celebrazione del decennale della "guerra dell'acqua" di Cochabamba, la rivolta del 2000 contro la privatizzazione dell'acqua nella cittadina, che ispirò una serie di movimenti sociali in tutta l'America latina e contribuì a portare Morales alla presidenza della Bolivia".

La Stampa

domenica 11 aprile 2010

Lutti di gioia

Dopo Lenin, Ghandi, Martin Luther King, Malcom X, Che Guevara, finalmente la Provvidenza ne ha beccata una giusta:

“L'aereo che trasportava il presidente polacco Lech Kaczynski e la moglie è precipitato mentre era in fase d'atterraggio all'aeroporto russo di Smolensk [...]
A bordo dell'aereo vi erano, oltre a Lech Kaczynski, il capo di stato maggiore polacco, Frantiszek Gagor, il viceministro degli Esteri, il governatore della banca centrale, 13 ministri, l'ex presidente Ryszard Kaczorowski, alcuni deputati, il candidato conservatore alle prossime presidenziali Przemyslaw Gosiewski e il vescovo cappellano dell'esercito. Particolarmente colpite le forze armate polacche che hanno visto scomparire oltre a Gagor, anche il capo delle forze sul campo, Bronislaw, il capo dell'Aeronautica militare, Tadeusz Buk, e quello dell'esercito, Andrzej Blasik, il capo delle forze speciali, Wojciech Potasinki, e il vice ammiraglio Andrzej Karweta [...]
La Polonia dovrà ora indire elezioni presidenziali anticipate”.

Corriere della Sera


Insomma un governo reazionario repressivo e autoritario, naturalmente filoamericano che aveva messo al bando i partiti e i simboli comunisti è stato decimato.
La notizia ha suscitato scalpore tra la redazione di Libero, il quotidiano uscirà con il titolo:
attacco terroristico dall'Aldilà
Si apre con un articolo che enumera i possibili mandanti della strage. Le ipotesi:
le Nuovissime Brigate Rosse, quelle che devono ancora nascere;
il fantasma di Stalin;
la stampa comunista (che infatti ormai è tutta all'aldilà);
l'autore dell'oscuro blog complottista e bolscevico Eresia rossa, che pare abbia dei contatti con il noto segretario del Partito Comunista Infernale, Lucifero Belzebù.

Pare comunque che Kaczynski non sia soddisfatto del suo arrivo nell'aldilà. Abbiamo in esclusiva per Eresia rossa un estratto delle intercettazioni di un colloquio tra l'oramai ex Presidente polacco e Dio.

K. Cazzo Gesù, non puoi mandarmi all'inferno è pieno di comunisti!
Gesù Vedrai che ti ci troverai bene, ci sono due anime dannate che hanno già manifestato il desiderio di conoscerti, mi pare che si chiamino Adolf e Benito...
K. Ti prego, ti prometto che farò il bravo! Almeno mandami in Purgatorio!
Gesù Niente da fare, con me non attacca, è già tutto pronto ho già pensato alla pena che ti sarà riservata.
K. Arderò tra le fiamme?
Gesù No, all'inferno vige la legge del contrappasso, per cui dovrai fare il segretario della sezione infernale del Partito Comunista dell'Aldilà.
K. Nooooo! Questo no, ti prego! Bruciami, torturami, ma questo no!
Gesù Mi dispiace, io i diritti umani li rispetto, anche perché contrariamente a quanto avviene sulla Terra qua in Paradiso Emergency è una lobby potentissima e anche io devo tenerne conto.
K. Porca Paletta, Gesù! Non è che sei pure tu una zecca comunista?
Gesù Più che altro sono loro che non mi vogliono perché Marx è ancora incazzato che io esisto. Però devo tenermeli buoni, qui in Paradiso i comunisti prendono il 51% e sono al governo.
K. Governano i comunisti? Ho cambiato idea, mandami all'inferno!


Insomma pare che Kaczynski sia riuscito a mettere d'accordo per una volta Dio e Satana. Quando si dice il dialogo bipartisan!
Adesso però il sottoscritto vorrebbe rivolgere un appello ai piani di sopra.

Cara Provvidenza,
lo so che un ateo materialista e incallito come me ti possa aver fatto ogni tanto leggermente incazzare (e altre volte anche tu hai fatto incazzare me, per esempio quella botta sul cofano della macchina te la potevi risparmiare) però devo riconoscere che questa volta hai lavorato bene, hai fatto davvero un ottimo lavoro, e tutti in un solo colpo! Un capolavoro balistico, devo ammetterlo, onore al merito!
Adesso però non fermarti! Continua così, c'è molto lavoro da fare, tu e Satana dovete fare come da noi, riforme condivise, avrei già in mente alcuni tipi che metterebbero d'accordo persino voi due:



















È chiaro che è solo qualche esempio, poi sei libera di sbizzarrirti, ma mi raccomando, non fare errori di persona come le altre volte! Poi, ti chiedo un ultimo favore, riportami sulla Terra uno come questo:
















Che so? Chiama Buddha e fallo rein
carnare in un leader della sinistra, non mi importa come, fai valere tutta la tua influenza, attiva tutti i tuoi contatti. Anche perché uno così ti farebbe risparmiare un bel po' di lavoro sull'Italia (e così magari ti eviti un altro fiasco come quello della statuetta del Duomo di Milano, il tuo agente era davvero un dilettante!) Se lo fai ti accendo un cero permanente e vado a messa tutte le domeniche!

venerdì 9 aprile 2010

Federalismo, ovvero la morte dello Stato

Questo post probabilmente non piacerà a una certa “sinistra”. Quella sinistra che intende la politica come una faccenda personale tra essa e Berlusconi, quella sinistra che vede nel Presidente del Consiglio la ragione di tutti i mali e che pensa che tolto costui, tutti i problemi sarebbero risolti.
Quella sinistra disposta perfino ad andare a braccetto con certe “costole” sue che in verità non hanno nulla di sinistra, quella sinistra disposta ad accettare le idee del nemico, a perdere qualsiasi ideale che la contraddistingueva pur di conquistare una vittoria nominale sull'odiato tiranno. Quella sinistra che al tiranno e alla destra piace molto.
Come ho già segnalato altrove in Italia si preferisce occuparsi di questioni di nulla importanza come le escort che sono diventate improvvisamente un flagello terribile per l'Italia, peggio di una pestilenza, per dimenticarsi invece di problemi che rischiano davvero di farci ripiombare indietro ad epoche non proprio luminose.
Uno dei mali che appartengono a questa categoria, mali come sempre non solo italiani, è il federalismo, che la Lega in Italia ha reso il proprio cavallo di battaglia ma che in realtà ha una lunga tradizione di riflessione teorica e di applicazione pratica ed è sostenuto da poteri e da interessi molto forti.
Chi abbia visto l'ultima puntata di Annozero ha avuto l'ulteriore conferma di come questo modello istituzionale venga soprattutto negli ultimi anni additato come panacea di tutti i mali, capace di trasformare istituzioni burocratiche e corrotte in efficientissime macchine di governo.
Questa teoria sostenuta da eminenti intellettuali è stata fatta propria anche dal centrosinistra che fu infatti il primo a realizzare il passo iniziale verso questo pastrocchio chiamato federalismo, la famosa riforma del Titolo V della Costituzione. Poi però è arrivata la Lega che ha detto che non gli andava bene perché era ancora troppo poco. E allora via alla famosa “devolution” (che sarebbe meglio chiamare “involution”, vedremo poi perché). Dal federalismo istituzionale adesso si dovrà passare a quello fiscale. Le regioni non solo dovrebbero essere libere di gestire come vogliono l'area geografica di propria competenza, ma addirittura di gestire le entrate fiscali, di comportarsi, insomma, come veri e propri stati indipendenti legati alla “madrepatria” da un vincolo di obbedienza abbastanza flebile. Basta prendere l'esempio del rapporto tra il Galles o la Scozia e la Corona inglese, per averne un'idea.
Quindi abbiamo due correnti, una che dice “federalismo o morte” e un'altra che dice “federalismo, sì, ma in modo cauto, senza fare accorgere gli italiani di quello che stiamo facendo”.
Probabilmente molti se lo sono scordato, ma un tempo il centrosinistra era contrario al federalismo fiscale. Adesso ha finito per accettare pure quello, come sempre avviene in questi casi, si fanno delle concessioni e poi si finisce per cedere su tutta la linea. A parte i diversi toni usati, tra centrodestra e centrosinistra non esistono differenze di rilievo riguardo al federalismo.
I federalisti vogliono ampi poteri per gli enti locali, Regioni, ma anche Province e Comuni, attraverso uno svuotamento del ruolo dello Stato. Gli enti locali diventerebbero i veri responsabili delle materie più importanti, come lo sono ora dal punto di vista amministrativo, lo diventeranno tra poco anche da quello fiscale. Essi sostengono che la gestione decentralizzata di un territorio risulterebbe più efficiente, ci sarebbero cioè meno sprechi e una maggiore qualità dei servizi offerti.
Il professor Ricolfi ad esempio, da Santoro, sosteneva che il federalismo porterebbe una riduzione dell'evasione fiscale.
Non viene spiegata concretamente questa tesi. Si dice che le regioni potrebbero esercitare un maggior controllo. Ma si rimane sul vago, sul principio astratto, senza scendere nei particolari. Ora io penso che si confondano due principi: la capillarizzazione delle istituzioni, la loro diffusione sul territorio, e la loro frammentazione.
Uno stato centralizzato è in grado di diffondere sul territorio l'esercizio delle proprie funzioni. Una forma di questa diffusione sono appunto gli enti locali. Semplicemente, in uno stata centralizzato gli enti locali esercitano le loro funzioni per conto dello Stato, della Nazione, del popolo italiano o come si vuole chiamarlo, mentre secondo la teoria federalista, questa funzione la eserciterebbero per conto loro. Ma non è che in un caso quella funzione è presente e nell'altro è assente. È presente in entrambi i casi. Semplicemente è dipendente da soggetti diversi. La diffusione e la capillarizzazione sul territorio è possibile anche se svolta da uno stato centralizzato. Anzi, si può dire che è questo il concetto moderno di stato. Uno stato è un'entità politica composta da suddivisioni territoriali controllate dal centro.
I federalisti invece hanno rovesciato il concetto di stato come era stato sviluppato dalla teoria politica dal Seicento in poi. Lo Stato diventa una mera aggregazione di entità territoriali, una federazione, appunto.
Da una parte quindi abbiamo uno Stato “capillare” che esercita le proprie funzioni sul territorio attraverso enti locali, dall'altro dei “microstati” frammentati che svuotano lo Stato centrale delle proprie funzioni, per “spartirsele” tra loro.
L'ente è sempre, in ogni caso, presente. Il controllo è lì, in ogni caso, e varia a seconda della tecnologia e delle tecniche che si dispongono. Diverso è il referente, di questa funzione, non lo Stato, ma l'ente locale stesso. Quest'ultimo non deve rendere conto più a nessuno. Anzi si può dire che il potere di controllo acquistato dalle regioni viene perso dallo Stato. Sembrerebbe che nella scomposizione non si sia perso nulla ma non è così. Si è perso il potere di controllo dello Stato centrale, quello che agiva in nome di un interesse nazionale e che poteva legittimamente imporre agli enti locali ciò che essi non vorrebbero. È una questione tutt'altro che secondaria. Se ad esempio la Lombardia decidesse di privatizzare completamente la sanità e di privare migliaia di lombardi delle cure mediche, in un sistema federale come quello che viene proposto, lo Stato non potrebbe intervenire, perché non è nelle sue competenze. Chi è che controlla le Regioni? Come fanno i cittadini italiani a controllare quelli lombardi? Questo è un problema che i federalisti non si sono posti.
Questo problema del controllo, è una questione che è stata a lungo dibattuta. Gli stati moderni, quelli centralizzati, sono stati una risposta e una risposta per nulla fallimentare a questo problema. Non a caso si è cercato poi di contenere questo potere dello Stato, non di espanderlo.
Si è fatto passare in questi anni il modello centralizzato di Stato per una sorta di reperto storico, invecchiato, burocratizzato, qualcosa di anacronistico e ormai vecchio. E si è dipinto il sistema federale come l'avanguardia delle tecniche amministrative, il più avanzato possibile. Lo Stato centrale non sarebbe in grado di esercitare un controllo efficiente sui più diversi territori e finisce per ingolfarsi in una burocrazia lenta e controproducente. Al contrario la “devoluzione” consentirebbe una gestione snella ed efficiente della cosa pubblica.
Questa narrazione è falsa. Lo stato centralizzato invece è nato proprio come risposta ai problemi di efficienza. Già nei regni e negli imperi dell'antichità, un serio problema per le dinastie regnanti era quello di assicurarsi la fedeltà dei diversi signori e proprietari locali. Se non ottenevano la loro fedeltà potevano nascere guerre e quindi instabilità per l'intero impero o regno. Oppure il potere dei sovrani non era più effettivo, ma solo nominale, perché i vari amministratori locali potevano fare ciò che volevano. Questa fu una delle cause del crollo dell'Impero Romano. Fu la ragione per cui Il sacro Romano Impero si sarebbe dissolto e sarebbero nati gli stati nazionali.
Ma esisteva anche il problema inverso: quello dei tanti staterelli rinascimentali in guerra tra di loro, che impedivano l'espansione del commercio e dei mestieri e quindi la crescita economica. Uno stato piccolo ha anche un potere piccolo. In un mondo in cui gli scambi commerciali varcavano le frontiere, questo diventava un problema, perché gli stati padronali, le signorie, non riuscivano più a gestire fenomeni così complessi.
La risposta a questo problema fu proprio la creazione degli stati nazionali. La Francia ne fu un esempio cristallino. Da un lato, si distaccò dal pesante e fumoso Sacro Romano Impero, dall'altro riunì tutte quelle realtà geografiche disperse sul territorio. Fu così che nacque la monarchia francese. Essa fu un esempio di efficienza per quei tempi. Fu così che la Francia poté diventare una potenza mondiale. Grazie allo stato centrale i francesi poterono contendere il dominio del mondo. Per la sua mancanza, l'Italia, pur godendo di una florida economia e di un'industria sviluppata, finì per essere spazzata via dalla scena internazionale e per andare incontro all'inevitabile tramonto.
I poteri dello Stato, in seguito, non sono diminuiti, ma al contrario, sono aumentati. Il controllo che lo Stato centrale era in grado di esercitare divenne sì un problema, ma non per la sua mancanza, bensì per la sua invasiva presenza. Cosa furono gli stati totalitari se non la concretizzazione di questa preoccupazione? Uno stato che era capace di controllare la vita di ogni individuo fin nei minimi particolari, uno stato ubiquo che arrivava dappertutto. Tuttavia gli stati centrali, se si esclude il caso dei regimi totalitari, nati proprio dove non esistevano stati centrali moderni (come in Russia) oppure dove questi erano deboli (come in Germania e in Italia) furono il tentato equilibrio tra le due necessità: da un lato unità nazionale e controllo centrale, dall'altro libertà individuale. Ma il problema era nel rapporto tra stato e individuo, tra nazione e singolo cittadino, non tra Stato e comunità locale. Fu proprio il rapporto Stato-individuo che sostituì la vecchia visione imperiale e feudale sovrano-territori. Diventa l'individuo e il cittadino al centro della riflessione teorica e non più la proprietà terriera. L'individuo non è più una cellula di una comunità che si rapporta al sovrano solo attraverso la comunità e che al di fuori di questa comunità non è più nulla, ma un soggetto portatore di diritti. Fu proprio lo stato nazionale a permettere l'ingresso nella storia di questa concezione, che è poi la concezione moderna, circa i diritti e i doveri del singolo. È proprio lo stato centrale a garantire al cittadino la propria autonomia. Esso esercita il controllo su tutto il suo territorio perché i suoi diritti vengano rispettati ed egli rispetti quelli degli altri.
Contrariamente a quello che si pensa, nella storia, il potere centrale fu un argine all'intemperanza e al dispotismo dei signori locali. Questo rappresentava l'Imperatore a Roma, che non sempre riusciva in questo scopo per ovvie ragioni logistiche (data la difficoltà di collegamento che esisteva a quei tempi). Questo furono le monarchie europee, che combatterono contro i nobili locali prima signori incontrastati del loro territorio con potere di vita o di morte sugli abitanti, permettendo così il passaggio dal sistema feudale e dalla servitù dei contadini al sistema mercantile. Laddove, invece, non ci fu un'autorità centrale abbastanza forte da contrastare il dispotismo locale, come fu per la Russia zarista, ci fu una svolta verso forme totalitarie di stato, le uniche in grado, con costi individuali molto elevati, di modernizzare la struttura economica della nazione. Dove, invece, gli stati centrali esistevano ma erano deboli, erano esposti al rischio di attentati eversivi, che poi si concretizzarono drammaticamente.
Lo stato centralizzato è l'unica istituzione politica in grado di controllare i poteri locali, nonché quelli economici nazionali, e spesso, con qualche difficoltà, di arginare quelli internazionali. Fu proprio questa struttura politica centralizzata e ramificata (i due concetti non sono incompatibili ma complementari) a sconfiggere quel dispotismo locale di stampo feudale, fondato sul comunitarismo medievale della società patriarcale. Fu questa istituzione a permettere, in seguito, l'evoluzione verso forme di partecipazione popolare attraverso assemblee elettive alla vita politica.
Il federalismo, invece, vuole concentrare il potere presso gli amministratori locali, facendo passare questa scelta come portatrice di maggiore partecipazione popolare e di vicinanza delle istituzioni alle esigenze della popolazione. In realtà questo metterebbe gli amministratori locali, che tendono a fondare il loro potere sul localismo, sugli intrecci familistici e sul controllo dell'elettorato, nella condizione di creare dei “feudi” che emarginerebbero parte della società in favore di un'altra. La dimostrazione l'abbiamo con quanto succede in Emilia o in Lombardia, dove esistono due presidenti che quasi sicuramente arriveranno a quindici anni di governo ininterrotto.
I “governatori” possono contare sull'appoggio totale delle lobby locali e spesso anche su una raccolta di voti fondata su un sistema clientelare. Cosa che invece risulta molto più difficile a livello nazionale.
Abbiamo avuto inoltre esempi di discriminazione in regioni governate dalla Lega, in sfavore degli immigrati e delle minoranze.
Si va dunque ricreando quel dispotismo locale, quel comunitarismo fondato sull'aggregazione di una comunità dove i diritti individuali che erano tutelati dallo stato centrale, ormai debole, vengono negati, in favore di privilegi comunitari o etnici addirittura.
In una situazione in cui l'economia si muove su scala internazionale, tanto che persino gli stati nazionali faticano a stargli dietro, questo regresso a forme di potere decentrate non può certo costituire una maggiore presa da parte del potere politico su quello economico. Al contrario, gli enti locali, disponendo di un potere molto più ampio di prima, ma molto inferiore di quello di uno stato nazionale e di una sovranità limitata dai confini geografici, si troveranno in completa balia del grande capitale globale.
Con la globalizzazione al galoppo sarebbero da auspicare forti stati nazionali, le uniche istituzioni che finora hanno potuto, anche se non sempre, opporsi ai grandi interessi economici e nello stesso tempo garantire una partecipazione popolare effettiva, nonché i diritti dei singoli cittadini.
Invece sta avvenendo il contrario. Gli stati nazionali si vanno disgregando, di contro al rafforzamento dei poteri locali, e a quello dei poteri transnazionali (politici e soprattutto economici).
Sono sottoposti a una duplice tensione: da una parte verso l'interno, da parte dei poteri locali che tentano di disgregarli per spartirsene le spoglie, dall'altra parte verso l'esterno, da parte delle grandi lobby mondiali che tentano di dissolverne le funzioni in organismi sovranazionali e assolutistici (Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale, ecc.).
Questo non fa altro che annientare l'unico organismo che finora ha permesso ai popoli di essere (seppure in modo parziale e lacunoso) rappresentati, che ha tutelato, pur differentemente, i diritti individuali e quelli delle classi più deboli, altrimenti del tutto esposte al potere delle oligarchie.
Che ha arginato e contenuto, certo in parte e in modo insufficiente, le disuguaglianze sociali, dove ha potuto, entro limiti umanamente accettabili.
Ogni meccanismo redistributivo deve passare per la centralizzazione. Le comunità primitive raccolgono le provviste diversamente raccolte dai propri membri per poi redistribuirle in parti eguali tra tutti.
Lo stato centrale preleva le tasse in quantità differente, a seconda della diversa ricchezza dei suoi territori, e poi le redistribuisce per tentare un parziale appianamento delle differenze e favorire uno sviluppo economico il più possibile omogeneo.
Lo stato federale non redistribuisce. La regione più ricca tiene per se le proprie ricchezze. I federalisti per rispondere a questa obiezione hanno escogitato il palliativo della “compensazione”, ma ovviamente questa compensazione sarebbe assolutamente non paragonabile a un'autentica redistribusione, poiché è evidente che se la parte maggiore e più significativa delle proprie ricchezze una regione le tiene per se, solo una parte minima e trascurabile di esse sarebbe destinata a una simile “compensazione”. Senza considerare tutti gli squilibri dovuti alle differenti offerte di servizi, in funzione della ricchezza, ma anche delle decisioni politiche che si prendono in una data area geografica.
I federalisti sostengono un sistema fiscale regionalizzato e parcellizzato come risposta all' “assistenzialismo” di cui avrebbero goduto, e di cui a volte hanno effettivamente goduto, alcune categorie.
Tuttavia questo assistenzialismo, si omette di considerare, non è dovuto a ragioni geografiche, bensì è legato a determinate categorie, classi sociali, ruoli o impieghi. Inoltre è proprio il sistema della “compensazione” il più vicino che esiste all'assistenzialismo, poiché ribalta il principio della fiscalità nazionale (tutti pagano per tutti) per renderlo una mera “sottrazione” delle ricchezze territoriali. Il federalismo ignora o finge di ignorare le caratteristiche dell'economia capitalistica, che non conosce barriere geografiche per cui le ricchezze della regione non sono il mero prodotto di quella regione, ma di una interazione a livello nazionale e spesso internazionale. Non esiste una ricchezza lombarda, una siciliana o una toscana. Esiste una ricchezza italiana. Era questo il principio sulla base del quale è avvenuta l'unificazione della penisola e i tentativi (a volte riusciti, altre falliti) di un suo ammodernamento.
Infine, spesso non si considerano a sufficienza gli “effetti collaterali” del federalismo. Ciò è dovuto ai concetti, assolutamente relativi, di centro e periferia. Una regione potrebbe essere vista come la periferia rispetto ai centri del potere nazionale. Ma sarebbe il centro rispetto ad altre sue province.
Facendo passare il principio della decentralizzazione politica e della parcellizzazione fiscale alcune province potrebbero un giorno reclamare nei confronti della propria regione lo stesso diritto che questa reclama oggi contro lo Stato. I comuni potrebbero fare lo stesso con le province. Infine, forse, anche i comuni finirebbero per disgregarsi. Una volta che il potere centrale viene meno, una volta fatto passare il principio alla base del federalismo, e una volta diffusasi la cultura dell'“ognuno per se” questo sarebbe uno scenario tutt'altro che imprevedibile.
I federalisti spesso portano come esempio nazioni di lunga tradizione federale, come gli Stati Uniti o la Germania. Tuttavia non considerano che: a) Sono Stati che sono nati attraverso un processo federativo, più che aggregativo, e che hanno da lungo tempo collaudato questo sistema, b) queste nazioni, godono tutte di forti squilibri economici tra le diverse aree geografiche c) Il federalismo è stato un compromesso che si è trovato tra i fautori dell'unità nazionale e gli indipendentisti.
Soprattutto quest'ultimo punto ci fa notare come la federazione sia una risultato di un processo di unificazione e non di disgregazione. Sarebbe l'evoluzione da una situazione di guerra intestina tra stati di una certa area geografica e relativa frammentazione, fino a una unificazione possibile, cioè quella che ha lasciato ampi poteri di manovra ai singoli territori federati che altrimenti non avrebbero mai accettato di unirsi. Al contrario i federalisti odierni vogliono proporre il loro sistema in nazione già unificate e tradizionalmente centralizzate politicamente, attuando il processo inverso, ovvero non una unificazione, ma una disgregazione nazionale.
Questo neofederalismo, come sarebbe più giusto chiamarlo, tradisce lo spirito del primo federalismo, che voleva l'unità e non la scomposizione di una nazione. Non è un caso che tutti i movimenti che sostennero il vecchio federalismo si ispiravano a ideologie patriottiche o nazionalistiche. Al contrario i maggiori sostenitori del neofederalismo rappresentano movimenti regionalisti e autonomisti, che reclamano autonomia e indipendenza dalla Capitale, l'esatto opposto di quanto facevano i vecchi federalisti.
Ma allora perché si sta tanto suffragando la causa dei neofederalisti se avrebbe effetti così nefasti?
In realtà i movimenti e i partiti politici che lo hanno fatto proprio sono soltanto la punta di un iceberg. Esistono lobby ben più potenti che spingono verso questo sistema e che operano per manipolare l'informazione dei media su questo argomento e fanno pressione sui dirigenti politici. Sono quelli che si riuniscono nel Club Bilderberg e che progettano un Nuovo Ordine Mondiale governato da istituzioni sovranazionali e oligarchiche. Il loro obiettivo è demolire gli stati nazionali.
Per farlo tentano da un lato, appunto, di rafforzare organi sovranazionali, dall'altro di indebolire il potere statale sul fronte interno, favorendone una sua disgregazione e una sua implosione. Il risultato sarebbe la cancellazione di qualsiasi possibilità di partecipazione popolare, dei diritti sociali e individuali acquisiti all'interno e per mezzo degli stati nazionali e sanciti dalle loro stesse carte costituzionali, una maggiore e prevaricante egemonia delle elite economiche internazionali.
Chiunque desidera che questo scenario non si realizzi dovrebbe sostenere il rafforzamento dello stato centrale, di contro alle pressioni tanto dei potentati locali (cavalli di Troia di quelli globali) quanto degli organismi internazionali, nonché del grande capitale globale.

mercoledì 7 aprile 2010

Preti rari

La Chiesa prosegue nel suo disperato quanto patetico tentativo di negare l'evidenza, e cioè la copertura delle violenze dei propri sacerdoti contro i bambini, impedendo il normale iter giudiziario, e quindi il tentativo eversivo delle gerarchie ecclesiali di mettersi al di fuori e al di sopra delle leggi dello Stato, uno Stato che considera straniero solo quando le fa comodo (vedi Otto per mille). Vuole negare qualcosa che è noto a chiunque sia un minimo informato, e cioè che Josef Ratzinger prima di diventare Papa partecipò all'operazione di insabbiamento di criminali consacrati. A causa sua e di quelli come lui, molti bambini che avrebbero potuto essere salvati se ci fosse stato un tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, subirono violenze finendo per essere segnati per tutta la vita.
Continuano a negare un fatto noto a tutti, e cioè che la Chiesa ha sempre previsto e continua a prevedere “punizioni” interne ad essa per i propri membri (verrebbe da dire “affiliati”).
Continuano a negare un fenomeno riconosciuto dalla scienza psichiatrica e cioè il danno che può provocare una castrazione imposta da una regola completamente anacronistica che i “fratelli” protestanti hanno già abbandonato da secoli.
Ma la storia della Chiesa è fatto di dinieghi. Si nega la propria storia, si nega ciò che fu Gesù Cristo, ciò che furono i vangeli, anche quelli non riconosciuti, ciò che furono le persecuzioni, le censure e le tante pagine buie che hanno infestato la storia di questa potentissima istituzione.
La Chiesa ha abbracciato il capitalismo selvaggio banchettando con banchieri e industriali, dimentica della massima di Cristo “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (dunque tutte le massime gerarchie ecclesiastiche!!). Sembrano non accorgersi, questi signori che fanno voto di povertà che i più grandi critici della Chiesa non sono gli atei o i comunisti, ma i Padri fondatori, i cristiani delle origini, quelli sulla cui parola dovrebbe essere fondata la Chiesa dello IOR.
La Chiesa è stata sempre della parte dei più forti, contrariamente a quanto fece il loro Gesù, si alleò con l'Impero quando c'era l'Impero romano, con le monarchie europee in epoca feudale, con il fascismo e con il nazismo durante l'ultima guerra mondiale, e con il Capitale transnazionale nell'epoca della globalizzazione.
Ma certi vizi sembrano non cambiare mai.
Adesso pretendono di essere le vittime delle situazione, cosa ridicola, come appare sempre ridicola ogni superpotenza che vuole far credere di esser vittima di un complotto (invece di essere, semmai, quella che i complotti li organizza).
Dopo i deliri di Cantalamessa, l'amica angie ci segnala un altro caso di esternazione paranoica da parte non di un cardinale questa volta ma di un giudice di dubbia autorevolezza che chiama in causa addirittura i massoni (ma non erano quelli che facevano intrighi alleati alla Chiesa? Mah!).
Penso che certe affermazione si smentiscano da sé, evidentemente il clero non vede come questa strategia finisce inevitabilmente per ritorcersi contro chi la adopera, fatta eccezione per quattro bizzoche di paese (ammesso che esistano ancora) che vanno in Chiesa tutti i giorni, le uniche che potrebbero credere a tutto quello che il parroco dice loro.
Vorrei però concentrare l'attenzione questa volta su un'altra categoria di “uomini di chiesa”. Sono preti che non si preoccupano degli embrioni ma delle persone in carne ed ossa, che preferiscono aiutare un immigrato piuttosto che gettarsi nelle grandi speculazioni finanziarie, che lottano tutti i giorni contro i potenti, contro gli abusi, contro il razzismo e contro la mafia. Sono, certamente, perle rare per una Chiesa che non le sa minimamente apprezzare. Essi sono destinati alla condanna e al biasimo delle alte sfere, quest'ultime sempre solidali con i potenti che vengono irrisi e sempre inflessibili con chi tenta di ribellarsi ai loro capricci.
Ma questi altri preti, invece, sono lì, imperterriti, indistruttibili, come sempre in direzione ostinata e contraria, sono persone come Don Andrea Gallo, nel suo impegno in favore dei diseredati, come Don Giorgio De Capitani, nella sua battaglia contro gli abusi di un potere volgare, o come Don Luigi Ciotti, fondatore di uno dei più grandi movimenti contro la mafia.
Saranno snobbati, mal sopportati, quando non censurati, dai loro superiori, che hanno sempre avversato i preti come loro, quelli che si schierano con i più deboli. A loro può toccare la scomunica, come avvenne per i teologi della liberazione colpevoli di aver difeso i popoli oppressi, cacciati da quel che sarebbe stato a giudizio di molti un “grande papa”, Wojtila.
A me i Papi non piacciono, mi piacciono però quei preti che ho nominato prima, e quelli che non ho nominato e che magari non godono di notorietà, ma che sono impegnati giorno per giorno a combattere contro i mali di una società iniqua e ingiusta malgrado gli impedimenti dei loro capi. Dei preti che non si fermano a vagheggiare la vita eterna, ma che sono impegnati per fare di questo mondo un luogo migliore. Da ateo e da comunista, penso che questo omaggio sia necessario a queste persone, che brillano come dei rubini in una pozza di fango.