Un paese che ha vissuto una breve, troppo breve, stagione di quel riscatto tanto atteso nei secoli passati e che adesso sta ripiombando velocemente nell'abisso.
È difficile trovare un settore, della sfera economica, politica, sociale o culturale, che non sia attraversato da una crisi profonda e strutturale. Va male l'economia, ben prima della crisi internazionale, le istituzioni politiche sono sempre più corrotte e distanti dalle esigenze della gente, le diseguaglianze sociali sono sempre più marcate, non c'è lavoro, non c'è possibilità di miglioramento se non per i più ricchi e stiamo scivolando verso comportamenti razzisti, intolleranti, cinici e abietti.
Le piaghe non solo di questo paese, ma che in questo paese si fanno sentire con una brutalità singolare, le conoscono un po' tutti e non c'è quindi da stare qui a elencarle.
Ma invece di porvi rimedio, cercare nuove strade, sembriamo invece fare di tutto per aggravarle, le soluzioni prospettate spesso si rivelano inefficaci quando non favoriscono addirittura l'effetto opposto a quello desiderato. Intellettuali, studiosi, politici, si affannano per fornire delle analisi e mettere appunto contromisure, tutte da un unico punto di vista, tutte parziali, nessuna che tenti una lettura complessiva della situazione. Un economista dirà che il debito pubblico è troppo alto, un politologo che la burocrazia è troppo costosa, un giurista che i procedimenti giudiziari sono troppo lunghi e farraginosi, un giornalista che l'informazione non è libera a sufficienza.
Tutti prestano attenzione agli effetti particolari e mai alle cause generali, riguardo al nostro paese, e che rendono quei mali particolarmente virulenti e cronici, e perciò ancor più difficili da contrastare.
Gli anni d'oro ormai terminati (o quelli che adesso ci sembrano tali) poggiavano evidentemente su basi fragili. È un paese strano. In cui convivono i picchi di enclavi avanzate e sviluppate e baratri di zone depresse e arretrate. Un paese dotato nel bene e nel male di una varietà impressionante, sia dal punto di vista geografico che antropologico. Un paese diviso, frammentato, caratterizzato non solo dalle scissioni e dalle lacerazioni tipiche della società moderna, ma che sembra carente di qualsiasi base di comune condivisione, sotto tutti i punti di vista e di qualsiasi meccanismo tanto per arginarle quanto per superarle. Un paese che si indigna per la corruzione di un politico, ma che è incapace di rispettare anche la più elementare norma del codice stradale. Un paese che dona soldi in beneficenza, ma che è capace di lasciare ammazzare un proprio concittadino in mezzo alla strada, senza che nessuno intervenga. Un paese che si indigna per una prostituta in mezzo alla strada, ma che lascia che una bambina sia violentata in una scuola. Un paese che ha scritto nella propria costituzione di essere fondato sul lavoro e che tuttavia permette la morte di migliaia di lavoratori nelle proprie fabbriche e nei propri cantieri. Un paese che si vanta di essere accogliente e che rinchiude gli immigrati in campi di internamento.
Queste contraddizioni tra una morale pubblica ufficiale e le prassi effettiva della vita quotidiana, sono inscritte nello stesso modus vivendi dell'italiano medio.
Questo italiano ha due punti di osservazione: da una parte la società, l'istituzione, la legge, un insieme astratto avvertito come qualcosa di impersonale e distante, che accetta per necessità, per abitudine, per conformismo; dall'altra gli individui con cui egli si rapporta quotidianamente durante la propria vita e che a lui sono legati da rapporti di collaborazione professionale, di amicizia o di parentela.
Mentre nei momenti solenni e ufficiali viene privilegiato il primo, con grande sfarzo e in pompa magna, con un uso spropositato della retorica, nella vita di tutti i giorni prevale decisamente il secondo e si annienta quasi del tutto il primo. Ad avere la meglio cioè, nella pratica, invece che nei discorsi, sono le relazioni personali dell'individuo. E con personale non è da intendersi meramente individuali, ma anche familiari, associative e corporative. Siccome il momento ufficiale e istituzionale, per arrivare al singolo, deve passare inevitabilmente per una qualche forma di relazione tra individui, è quest'ultima a prevalere nella sua singolarità, venendo del tutto a mancare invece la coscienza dell'universale, la presenza nel proprio modo di agire di un'idea, un'attitudine, un abito mentale che trascende la relazione personale pura e semplice che avviene in quel momento, in sostanza, una morale pubblica. Non si tratta di un atteggiamento immorale e nemmeno antagonistico. In entrambi questi casi, infatti, ci sarebbe comunque una consapevolezza e un sentimento della presenza di questa coscienza, seppure in negativo. Si tratta invece dell'assenza di qualsiasi riferimento ad essa, se non in modo molto flebile e superficiale, nelle normali relazioni tra individui o gruppi di individui. Indifferenza.
Persino il momento che dovrebbe essere di massima espressione di quella coscienza, di quella morale, la partecipazione politica attraverso il voto, finisce spesso per essere annientato nella comunanza di interessi e di rapporti personali.
Alle elezioni, quelle locali soprattutto, si vota il parente, il cugino, lo zio, oppure il conoscente che ci chiede il voto. Non c'è alcun riguardo per le idee politiche di ognuno e nessuno ne ha per le proprie. Bisogna votare per i membri della famiglia o del gruppo di persone con cui si ha una qualche relazione personale, anche se hanno idee politiche opposte alle nostre. Ci si candida con liste che diversamente non si sarebbero mai votate e si chiede di votarle a chi non lo avrebbe mai fatto. Ma il voto è un dovere, in ambito familiare, o tribale, magari corporativo, perché il nostro collega ottenga un taglio delle tasse per la nostra categoria. Si vota il vicino che ci ha promesso di farci ottenere i finanziamenti dalla regione per un alluvione che non ci ha mai colpito, si vota qualcuno che poi dovrà restituirci il favore quando saremo noi a candidarci, magari con una lista avversaria. Tutto ciò favorisce il venir meno dei propri ideali, annacquati in un guazzabuglio di compromessi e di interessi del microsistema in cui viviamo. Se la crisi delle ideologie e dei partiti politici si fa sentire nel nostro paese più che negli altri questa è una delle ragioni. Bisogna portare avanti gli interessi della famiglia, della tribù, del clan. Anche allo scopo di scavalcare quelli collettivi, i principi di una morale dichiarata e sempre sistematicamente tradita nei fatti. Ci si scandalizza quando i politici usano il proprio ufficio per perpetuare questi comportamenti, i quali non sono in realtà nient'altro che la prosecuzione della logica familistica con altri mezzi. Il do ut des regna nel nostro paese da tempi immemorabili. Vota per me che io voterò per te. Fai qualcosa per me che io ricambierò il favore. Il gruppo protegge i propri membri, che fuori da questo gruppo non sono più nessuno. Siamo il paese dei piccoli comuni, che durante il Medioevo riuscirono a dare seri grattacapi ai sovrani, siamo il paese delle corporazioni, che continuano a resistere alla storia e ai cambiamenti e perpetuano testardamente i privilegi dei propri appartenenti. Siamo il paese che è stato dilaniato dalle signorie, dagli staterelli tanto piccoli quanto arroccati e l'un contro l'altro armati, che per spuntarla in questa guerra intestina andavano a chiedere sempre aiuto al Papa o alle monarchie europee. Un paese che godeva di uno sviluppo economico e industriale di primo livello che è stato vanificato dalla litigiosità politica, dalle tante tribù allargate che pretendevano di fare stato a se. La Spagna senza avere un'economia florida, aveva uno stato potente e con esso riuscì a dominare a lungo la scena internazionale, l'Italia, al contrario, aveva un'economia florida ma neanche uno straccio di stato e la qual cosa finì per compromettere anche la sua economia.
Siamo il paese in cui, nei tempi della globalizzazione, continuano a resistere e a diffondersi le tante piccole imprese a conduzione familiare, coccolate dai politici e dagli economisti, nonostante ci stiano portando sull'orlo della catastrofe economica. Continua a resistere il mito della fattoria, del falansterio dove la famiglia vive e produce, condotta da un padre padrone benevolo e da laboriosi figli dipendenti. È la struttura familiare che viene trasferita all'industria. Questa mitizzazione della piccola impresa stenta a scomparire, eppure è tra le maggiori cause della spropositata diffusione del lavoro nero o sottopagato e dell'evasione fiscale delle imprese. I Comuni, le Regioni, e infine lo Stato che ne è succube, sono tutti protesi verso di loro, nonostante siano incapaci di stare sul mercato, causando periodicamente la rovina di migliaia di persone, assolutamente inadeguate a reggere durante i periodi di crisi. Le corporazioni della arti e dei mestieri hanno sempre tenuto un alto steccato attorno al proprio territorio, perché nessun altro vi entrasse, formando una setta professionale selezionatissima, impossibile da penetrare. Anche in economia vige la legge del clan.
Avvocati, magistrati, commercialisti, notai, commercianti, artigiani, imprenditori e banchieri, tutti formano le loro congreghe e le loro sottocongreghe per trasmettere il loro mestiere di padre in figlio e per impedire la contaminazione con gli individui provenienti da altre famiglie. Né imperatori, né parlamenti eletti hanno mai potuto far nulla contro di loro, perché il familismo contagia tutti e raggiunge chiunque, anche ai livelli più alti. In questo è assolutamente egualitario, non c'è nessuno che possa sfuggire al suo controllo clanistico.
La famiglia allargata, la tribù, il clan, è solido come una roccia, ha un modo infallibile di proteggersi. Impone ai propri membri il silenzio, circa le proprie attività, se ne parla solo all'interno e mai all'esterno. Se un membro infrange le regole, viene punito solo se nuoce agli altri membri del gruppo e sempre e soltanto all'interno del gruppo e con la massima discrezione. Non per niente siamo il paese delle associazioni segrete, della massoneria, dei servizi deviati, dei gruppi terroristici, dei golpe tentati attraverso oscure trame in cui mai nessuno è riuscito a vedere a fondo. Delle sette sataniche e di quelle religiose, che abusano di donne e bambini, impenetrabili per decenni alle autorità e alla legge dello stato.
Nel nostro paese per millenni sono stati perpetrati gli abusi dei preti sui bambini, senza che nessuno dicesse nulla o lasciasse trapelare nulla. Chi sapeva taceva o fingeva di non sapere oppure si costringeva a dimenticare. I genitori si dicevano che erano fantasie infantili, per tranquillizzarsi, i compaesani respingevano le parole di qualche fanciullo, o che qualche parrocchiano più ingenuo si è lasciato sfuggire, come un'impertinenza, una maldicenza. La Chiesa ha sempre fatto di tutto per nascondere i propri scheletri nell'armadio, coprendo le nefandezze dei propri “pastori”. Ma neanche i laici e le persone ostili alla Chiesa hanno avuto l'ardire di denunciare quanto accadeva. Nessuno scrittore, intellettuale, politico. La famiglia non si tocca, neanche quella degli altri, perché altrimenti questa poi potrebbe rivalersi sulla propria. C'è voluta la potenza della televisione e le denunce, da altre nazioni, perché si aprisse uno squarcio di verità.
Questa omertà non è qualcosa di perfettamente cosciente, ma che impregna la vita dei paesini, quei paesini microscopici, che resistono ancora nonostante tutto, la vita delle contrade, di cui le città italiane più cosmopolite vanno orgogliosamente fiere, e finisce per raggiungere le metropoli e i palazzi del potere.
Non per niente siamo il paese della mafia, della camorra, della 'ndrangheta, della sacra corona unita, della mafia del brenta. Una mafia che nessun governo sembra mai potere e volere distruggere. Una mafia che è nata come modesta milizia di ladri di polli e di pastori e che è diventata una delle più grandi organizzazioni criminali al mondo e uno gruppo di potere capace di infiltrarsi ovunque. Senza mai perdere la propria struttura, anzi rafforzandola, assieme ai propri riti e alle proprie cerimonie arcaiche, ai propri linguaggi cifrati, a sigillare ogni nuovo patto d'affari.
Siamo un paese che è dominato da quello che il sociologo americano Edward Banfield definiva familismo amorale, la presenza ossessiva e pervasiva del retaggio familiare, l'assenza di regole se non all'interno della struttura parentale.
Così onoriamo un impegno con un parente in modo molto più scrupoloso che una legge o una norma etica. Un divieto stradale si può infrangere, le tasse si possono evadere, le file alla cassa si possono superare, ma non si può mai tradire la fiducia di un parente o di un amico, un nipote deve essere raccomandato, per fargli ottenere un posto o una promozione, un cognato potrà grazie a noi passare attraverso corsie preferenziali per sbrigare una pratica in poco tempo evitando le lungaggini burocratiche.
La famiglia viene prima della legge dello stato e della morale pubblica.
Questo paese è stato così bene descritto da Federico De Roberto nei Viceré, un romanzo troppo spesso ignorato, e a cui nelle scuole viene preferita l'operetta morelaggiante dei Promessi Sposi, e che narra le vicende di una famiglia aristocratica, che attraverso varie traversie, finisce sempre per conservare la propria posizione di potere, sotto i Borboni, come durante l'Italia unita. Tutti possono fare qualsiasi cosa, prendere parte a qualunque azione e a qualunque guerra, stare dalla parte dei Borboni, o da quella di Garibaldi, nella destra o nella sinistra, purché ad essere portati avanti siano sempre gli interessi della famiglia e del clan. Secondo la massima di Gaspare Uzeda, parodia della celebre frase di Massimo D'Azeglio, fatta l'Italia dobbiamo fare gli affari nostri.
Siamo inflessibili, nelle prese di posizione ufficiali, ma le trasgrediamo volentieri nella pratica. Non siamo capaci di tenere uniti i due piani, quello etico e quello personale, cosicché il primo vive solo nei bei discorsi e rimane del tutto distaccato dal secondo, che invece si autogoverna secondo proprie leggi, le leggi dell'interesse reciproco, la legge del clan, della congrega.
Non a caso tutte le ideologie universalistiche, che cercavano di realizzare un ideale di società fondato su leggi universali e uguali per tutti, nel nostro paese sono miseramente fallite, laiche o religiose che fossero.
Il cristianesimo delle origini, che asseriva l'uguaglianza di tutti gli uomini, sarebbe stato piegato e manipolato secondo le esigenze egemoniche e settarie del cattolicesimo. L'umanesimo, doveva schiantarsi contro il muro degli interessi corporativi ed ecclesiastici. L'illuminismo non ha mai attecchito veramente nel nostro paese, come dimostra la persistenza della superstizione, delle sette religiose, di tradizioni arcaiche e anacronistiche, delle statue dei santi di paese portate a spasso per le piazze, della fede irrazionale nei miracoli e nella sua traduzione moderna, ovvero le lotterie e i gratta e vinci che invadono l'Italia, come dei giri di scommesse sportive. Il repubblicanesimo risorgimentale, che voleva unificare l'Italia, riuscì a farlo solo ufficialmente, lasciandola però intatta nelle sue disparità, economiche, linguistiche e culturali. Perché i clan hanno proprie lingue e proprie tradizioni. L'antifascismo e la Resistenza, che volevano costruire un'Italia su nuove basi di giustizia e libertà e che lo dichiararono in una delle costituzioni più avanzate al mondo, non poterono nulla contro il potere della famiglia. Il marxismo, infine, ultimo di una lunga serie, che voleva unire la classe operaia per riscattarla, doveva infrangersi contro la diffusione delle parrocchie e la fede dei parrocchiani, tutti stretti attorno al loro sacerdote che dice loro come votare.
La scissione dei lavoratori, poi, in tempi più recenti, in varie conventicole, ognuna legata al proprio padrone, ai propri capetti aziendali finendo ognuno per imitarne gli atteggiamenti servili, avrebbe finito per dare il colpo di grazia agli ideali di riscossa sociale.
Anche oggi, ai tempi del liberismo sfrenato e del dio mercato, l'unica ideologia che gli italiani hanno abbracciato tutti quanti insieme ripudiando le altre, il Capitale internazionale non ha annullato i clan medievali, semmai li ha convertiti al proprio credo, li ha resi suoi servitori, ma questi continuano a resistere e a prosperare. Le aziende, anche le più grandi e moderne, continuano ad assumere i figli dei propri dipendenti; le pubblicità idealizzano la famiglia e il ruolo della donna al suo interno, bellissima, curatissima e all'ultima moda, è sempre subalterno.
Sembriamo conquistati da una nuova moda politica, come ne abbiamo vissute tante, quella dell'unico partito dell'estrema destra d'Europa che sia regionale e autonomista, che chiede a gran voce il federalismo, diventato un mantra per tutta la classe dirigente. In questo modo si disintegra ciò che rimane dello Stato, per tornare al “territorio”, alle regioni, ai comuni microscopici e alle province. Teniamo fuori tutti quelli che non sono nati nel nostro villaggio insignificante e restiamo arroccati alla nostra cultura, alla nostra tradizione, alla nostra etnia. Diamo più potere ai sindaci, diamo alle regioni l'autonomia fiscale. Rinchiudiamoci nei nostri clan, nelle nostre famiglie allargate, mentre il mercato spregiudicato intanto ci lascia fare, ma prima o poi ci travolgerà.
Noi italiani siamo impotenti di fronte al familismo, perché esso è parte integrante della nostra “italianità”. Ecco perché invece che arroccarci, dovremmo cambiare l'aria, aprire le porte e far entrare aria fresca da tutto il mondo, e lasciare che gli immigrati aboliscano i nostri clan e le nostre connivenze. Sono loro, gli unici che possono salvarci. Non è per umanitarismo che dobbiamo favorire l'immigrazione. È per noi stessi, perché quello che siamo, ci sta portando alla rovina. Perché l'italiano così come è oggi non è in grado di cambiare e deve perciò contaminarsi con altre popolazioni e altre culture.
È difficile trovare un settore, della sfera economica, politica, sociale o culturale, che non sia attraversato da una crisi profonda e strutturale. Va male l'economia, ben prima della crisi internazionale, le istituzioni politiche sono sempre più corrotte e distanti dalle esigenze della gente, le diseguaglianze sociali sono sempre più marcate, non c'è lavoro, non c'è possibilità di miglioramento se non per i più ricchi e stiamo scivolando verso comportamenti razzisti, intolleranti, cinici e abietti.
Le piaghe non solo di questo paese, ma che in questo paese si fanno sentire con una brutalità singolare, le conoscono un po' tutti e non c'è quindi da stare qui a elencarle.
Ma invece di porvi rimedio, cercare nuove strade, sembriamo invece fare di tutto per aggravarle, le soluzioni prospettate spesso si rivelano inefficaci quando non favoriscono addirittura l'effetto opposto a quello desiderato. Intellettuali, studiosi, politici, si affannano per fornire delle analisi e mettere appunto contromisure, tutte da un unico punto di vista, tutte parziali, nessuna che tenti una lettura complessiva della situazione. Un economista dirà che il debito pubblico è troppo alto, un politologo che la burocrazia è troppo costosa, un giurista che i procedimenti giudiziari sono troppo lunghi e farraginosi, un giornalista che l'informazione non è libera a sufficienza.
Tutti prestano attenzione agli effetti particolari e mai alle cause generali, riguardo al nostro paese, e che rendono quei mali particolarmente virulenti e cronici, e perciò ancor più difficili da contrastare.
Gli anni d'oro ormai terminati (o quelli che adesso ci sembrano tali) poggiavano evidentemente su basi fragili. È un paese strano. In cui convivono i picchi di enclavi avanzate e sviluppate e baratri di zone depresse e arretrate. Un paese dotato nel bene e nel male di una varietà impressionante, sia dal punto di vista geografico che antropologico. Un paese diviso, frammentato, caratterizzato non solo dalle scissioni e dalle lacerazioni tipiche della società moderna, ma che sembra carente di qualsiasi base di comune condivisione, sotto tutti i punti di vista e di qualsiasi meccanismo tanto per arginarle quanto per superarle. Un paese che si indigna per la corruzione di un politico, ma che è incapace di rispettare anche la più elementare norma del codice stradale. Un paese che dona soldi in beneficenza, ma che è capace di lasciare ammazzare un proprio concittadino in mezzo alla strada, senza che nessuno intervenga. Un paese che si indigna per una prostituta in mezzo alla strada, ma che lascia che una bambina sia violentata in una scuola. Un paese che ha scritto nella propria costituzione di essere fondato sul lavoro e che tuttavia permette la morte di migliaia di lavoratori nelle proprie fabbriche e nei propri cantieri. Un paese che si vanta di essere accogliente e che rinchiude gli immigrati in campi di internamento.
Queste contraddizioni tra una morale pubblica ufficiale e le prassi effettiva della vita quotidiana, sono inscritte nello stesso modus vivendi dell'italiano medio.
Questo italiano ha due punti di osservazione: da una parte la società, l'istituzione, la legge, un insieme astratto avvertito come qualcosa di impersonale e distante, che accetta per necessità, per abitudine, per conformismo; dall'altra gli individui con cui egli si rapporta quotidianamente durante la propria vita e che a lui sono legati da rapporti di collaborazione professionale, di amicizia o di parentela.
Mentre nei momenti solenni e ufficiali viene privilegiato il primo, con grande sfarzo e in pompa magna, con un uso spropositato della retorica, nella vita di tutti i giorni prevale decisamente il secondo e si annienta quasi del tutto il primo. Ad avere la meglio cioè, nella pratica, invece che nei discorsi, sono le relazioni personali dell'individuo. E con personale non è da intendersi meramente individuali, ma anche familiari, associative e corporative. Siccome il momento ufficiale e istituzionale, per arrivare al singolo, deve passare inevitabilmente per una qualche forma di relazione tra individui, è quest'ultima a prevalere nella sua singolarità, venendo del tutto a mancare invece la coscienza dell'universale, la presenza nel proprio modo di agire di un'idea, un'attitudine, un abito mentale che trascende la relazione personale pura e semplice che avviene in quel momento, in sostanza, una morale pubblica. Non si tratta di un atteggiamento immorale e nemmeno antagonistico. In entrambi questi casi, infatti, ci sarebbe comunque una consapevolezza e un sentimento della presenza di questa coscienza, seppure in negativo. Si tratta invece dell'assenza di qualsiasi riferimento ad essa, se non in modo molto flebile e superficiale, nelle normali relazioni tra individui o gruppi di individui. Indifferenza.
Persino il momento che dovrebbe essere di massima espressione di quella coscienza, di quella morale, la partecipazione politica attraverso il voto, finisce spesso per essere annientato nella comunanza di interessi e di rapporti personali.
Alle elezioni, quelle locali soprattutto, si vota il parente, il cugino, lo zio, oppure il conoscente che ci chiede il voto. Non c'è alcun riguardo per le idee politiche di ognuno e nessuno ne ha per le proprie. Bisogna votare per i membri della famiglia o del gruppo di persone con cui si ha una qualche relazione personale, anche se hanno idee politiche opposte alle nostre. Ci si candida con liste che diversamente non si sarebbero mai votate e si chiede di votarle a chi non lo avrebbe mai fatto. Ma il voto è un dovere, in ambito familiare, o tribale, magari corporativo, perché il nostro collega ottenga un taglio delle tasse per la nostra categoria. Si vota il vicino che ci ha promesso di farci ottenere i finanziamenti dalla regione per un alluvione che non ci ha mai colpito, si vota qualcuno che poi dovrà restituirci il favore quando saremo noi a candidarci, magari con una lista avversaria. Tutto ciò favorisce il venir meno dei propri ideali, annacquati in un guazzabuglio di compromessi e di interessi del microsistema in cui viviamo. Se la crisi delle ideologie e dei partiti politici si fa sentire nel nostro paese più che negli altri questa è una delle ragioni. Bisogna portare avanti gli interessi della famiglia, della tribù, del clan. Anche allo scopo di scavalcare quelli collettivi, i principi di una morale dichiarata e sempre sistematicamente tradita nei fatti. Ci si scandalizza quando i politici usano il proprio ufficio per perpetuare questi comportamenti, i quali non sono in realtà nient'altro che la prosecuzione della logica familistica con altri mezzi. Il do ut des regna nel nostro paese da tempi immemorabili. Vota per me che io voterò per te. Fai qualcosa per me che io ricambierò il favore. Il gruppo protegge i propri membri, che fuori da questo gruppo non sono più nessuno. Siamo il paese dei piccoli comuni, che durante il Medioevo riuscirono a dare seri grattacapi ai sovrani, siamo il paese delle corporazioni, che continuano a resistere alla storia e ai cambiamenti e perpetuano testardamente i privilegi dei propri appartenenti. Siamo il paese che è stato dilaniato dalle signorie, dagli staterelli tanto piccoli quanto arroccati e l'un contro l'altro armati, che per spuntarla in questa guerra intestina andavano a chiedere sempre aiuto al Papa o alle monarchie europee. Un paese che godeva di uno sviluppo economico e industriale di primo livello che è stato vanificato dalla litigiosità politica, dalle tante tribù allargate che pretendevano di fare stato a se. La Spagna senza avere un'economia florida, aveva uno stato potente e con esso riuscì a dominare a lungo la scena internazionale, l'Italia, al contrario, aveva un'economia florida ma neanche uno straccio di stato e la qual cosa finì per compromettere anche la sua economia.
Siamo il paese in cui, nei tempi della globalizzazione, continuano a resistere e a diffondersi le tante piccole imprese a conduzione familiare, coccolate dai politici e dagli economisti, nonostante ci stiano portando sull'orlo della catastrofe economica. Continua a resistere il mito della fattoria, del falansterio dove la famiglia vive e produce, condotta da un padre padrone benevolo e da laboriosi figli dipendenti. È la struttura familiare che viene trasferita all'industria. Questa mitizzazione della piccola impresa stenta a scomparire, eppure è tra le maggiori cause della spropositata diffusione del lavoro nero o sottopagato e dell'evasione fiscale delle imprese. I Comuni, le Regioni, e infine lo Stato che ne è succube, sono tutti protesi verso di loro, nonostante siano incapaci di stare sul mercato, causando periodicamente la rovina di migliaia di persone, assolutamente inadeguate a reggere durante i periodi di crisi. Le corporazioni della arti e dei mestieri hanno sempre tenuto un alto steccato attorno al proprio territorio, perché nessun altro vi entrasse, formando una setta professionale selezionatissima, impossibile da penetrare. Anche in economia vige la legge del clan.
Avvocati, magistrati, commercialisti, notai, commercianti, artigiani, imprenditori e banchieri, tutti formano le loro congreghe e le loro sottocongreghe per trasmettere il loro mestiere di padre in figlio e per impedire la contaminazione con gli individui provenienti da altre famiglie. Né imperatori, né parlamenti eletti hanno mai potuto far nulla contro di loro, perché il familismo contagia tutti e raggiunge chiunque, anche ai livelli più alti. In questo è assolutamente egualitario, non c'è nessuno che possa sfuggire al suo controllo clanistico.
La famiglia allargata, la tribù, il clan, è solido come una roccia, ha un modo infallibile di proteggersi. Impone ai propri membri il silenzio, circa le proprie attività, se ne parla solo all'interno e mai all'esterno. Se un membro infrange le regole, viene punito solo se nuoce agli altri membri del gruppo e sempre e soltanto all'interno del gruppo e con la massima discrezione. Non per niente siamo il paese delle associazioni segrete, della massoneria, dei servizi deviati, dei gruppi terroristici, dei golpe tentati attraverso oscure trame in cui mai nessuno è riuscito a vedere a fondo. Delle sette sataniche e di quelle religiose, che abusano di donne e bambini, impenetrabili per decenni alle autorità e alla legge dello stato.
Nel nostro paese per millenni sono stati perpetrati gli abusi dei preti sui bambini, senza che nessuno dicesse nulla o lasciasse trapelare nulla. Chi sapeva taceva o fingeva di non sapere oppure si costringeva a dimenticare. I genitori si dicevano che erano fantasie infantili, per tranquillizzarsi, i compaesani respingevano le parole di qualche fanciullo, o che qualche parrocchiano più ingenuo si è lasciato sfuggire, come un'impertinenza, una maldicenza. La Chiesa ha sempre fatto di tutto per nascondere i propri scheletri nell'armadio, coprendo le nefandezze dei propri “pastori”. Ma neanche i laici e le persone ostili alla Chiesa hanno avuto l'ardire di denunciare quanto accadeva. Nessuno scrittore, intellettuale, politico. La famiglia non si tocca, neanche quella degli altri, perché altrimenti questa poi potrebbe rivalersi sulla propria. C'è voluta la potenza della televisione e le denunce, da altre nazioni, perché si aprisse uno squarcio di verità.
Questa omertà non è qualcosa di perfettamente cosciente, ma che impregna la vita dei paesini, quei paesini microscopici, che resistono ancora nonostante tutto, la vita delle contrade, di cui le città italiane più cosmopolite vanno orgogliosamente fiere, e finisce per raggiungere le metropoli e i palazzi del potere.
Non per niente siamo il paese della mafia, della camorra, della 'ndrangheta, della sacra corona unita, della mafia del brenta. Una mafia che nessun governo sembra mai potere e volere distruggere. Una mafia che è nata come modesta milizia di ladri di polli e di pastori e che è diventata una delle più grandi organizzazioni criminali al mondo e uno gruppo di potere capace di infiltrarsi ovunque. Senza mai perdere la propria struttura, anzi rafforzandola, assieme ai propri riti e alle proprie cerimonie arcaiche, ai propri linguaggi cifrati, a sigillare ogni nuovo patto d'affari.
Siamo un paese che è dominato da quello che il sociologo americano Edward Banfield definiva familismo amorale, la presenza ossessiva e pervasiva del retaggio familiare, l'assenza di regole se non all'interno della struttura parentale.
Così onoriamo un impegno con un parente in modo molto più scrupoloso che una legge o una norma etica. Un divieto stradale si può infrangere, le tasse si possono evadere, le file alla cassa si possono superare, ma non si può mai tradire la fiducia di un parente o di un amico, un nipote deve essere raccomandato, per fargli ottenere un posto o una promozione, un cognato potrà grazie a noi passare attraverso corsie preferenziali per sbrigare una pratica in poco tempo evitando le lungaggini burocratiche.
La famiglia viene prima della legge dello stato e della morale pubblica.
Questo paese è stato così bene descritto da Federico De Roberto nei Viceré, un romanzo troppo spesso ignorato, e a cui nelle scuole viene preferita l'operetta morelaggiante dei Promessi Sposi, e che narra le vicende di una famiglia aristocratica, che attraverso varie traversie, finisce sempre per conservare la propria posizione di potere, sotto i Borboni, come durante l'Italia unita. Tutti possono fare qualsiasi cosa, prendere parte a qualunque azione e a qualunque guerra, stare dalla parte dei Borboni, o da quella di Garibaldi, nella destra o nella sinistra, purché ad essere portati avanti siano sempre gli interessi della famiglia e del clan. Secondo la massima di Gaspare Uzeda, parodia della celebre frase di Massimo D'Azeglio, fatta l'Italia dobbiamo fare gli affari nostri.
Siamo inflessibili, nelle prese di posizione ufficiali, ma le trasgrediamo volentieri nella pratica. Non siamo capaci di tenere uniti i due piani, quello etico e quello personale, cosicché il primo vive solo nei bei discorsi e rimane del tutto distaccato dal secondo, che invece si autogoverna secondo proprie leggi, le leggi dell'interesse reciproco, la legge del clan, della congrega.
Non a caso tutte le ideologie universalistiche, che cercavano di realizzare un ideale di società fondato su leggi universali e uguali per tutti, nel nostro paese sono miseramente fallite, laiche o religiose che fossero.
Il cristianesimo delle origini, che asseriva l'uguaglianza di tutti gli uomini, sarebbe stato piegato e manipolato secondo le esigenze egemoniche e settarie del cattolicesimo. L'umanesimo, doveva schiantarsi contro il muro degli interessi corporativi ed ecclesiastici. L'illuminismo non ha mai attecchito veramente nel nostro paese, come dimostra la persistenza della superstizione, delle sette religiose, di tradizioni arcaiche e anacronistiche, delle statue dei santi di paese portate a spasso per le piazze, della fede irrazionale nei miracoli e nella sua traduzione moderna, ovvero le lotterie e i gratta e vinci che invadono l'Italia, come dei giri di scommesse sportive. Il repubblicanesimo risorgimentale, che voleva unificare l'Italia, riuscì a farlo solo ufficialmente, lasciandola però intatta nelle sue disparità, economiche, linguistiche e culturali. Perché i clan hanno proprie lingue e proprie tradizioni. L'antifascismo e la Resistenza, che volevano costruire un'Italia su nuove basi di giustizia e libertà e che lo dichiararono in una delle costituzioni più avanzate al mondo, non poterono nulla contro il potere della famiglia. Il marxismo, infine, ultimo di una lunga serie, che voleva unire la classe operaia per riscattarla, doveva infrangersi contro la diffusione delle parrocchie e la fede dei parrocchiani, tutti stretti attorno al loro sacerdote che dice loro come votare.
La scissione dei lavoratori, poi, in tempi più recenti, in varie conventicole, ognuna legata al proprio padrone, ai propri capetti aziendali finendo ognuno per imitarne gli atteggiamenti servili, avrebbe finito per dare il colpo di grazia agli ideali di riscossa sociale.
Anche oggi, ai tempi del liberismo sfrenato e del dio mercato, l'unica ideologia che gli italiani hanno abbracciato tutti quanti insieme ripudiando le altre, il Capitale internazionale non ha annullato i clan medievali, semmai li ha convertiti al proprio credo, li ha resi suoi servitori, ma questi continuano a resistere e a prosperare. Le aziende, anche le più grandi e moderne, continuano ad assumere i figli dei propri dipendenti; le pubblicità idealizzano la famiglia e il ruolo della donna al suo interno, bellissima, curatissima e all'ultima moda, è sempre subalterno.
Sembriamo conquistati da una nuova moda politica, come ne abbiamo vissute tante, quella dell'unico partito dell'estrema destra d'Europa che sia regionale e autonomista, che chiede a gran voce il federalismo, diventato un mantra per tutta la classe dirigente. In questo modo si disintegra ciò che rimane dello Stato, per tornare al “territorio”, alle regioni, ai comuni microscopici e alle province. Teniamo fuori tutti quelli che non sono nati nel nostro villaggio insignificante e restiamo arroccati alla nostra cultura, alla nostra tradizione, alla nostra etnia. Diamo più potere ai sindaci, diamo alle regioni l'autonomia fiscale. Rinchiudiamoci nei nostri clan, nelle nostre famiglie allargate, mentre il mercato spregiudicato intanto ci lascia fare, ma prima o poi ci travolgerà.
Noi italiani siamo impotenti di fronte al familismo, perché esso è parte integrante della nostra “italianità”. Ecco perché invece che arroccarci, dovremmo cambiare l'aria, aprire le porte e far entrare aria fresca da tutto il mondo, e lasciare che gli immigrati aboliscano i nostri clan e le nostre connivenze. Sono loro, gli unici che possono salvarci. Non è per umanitarismo che dobbiamo favorire l'immigrazione. È per noi stessi, perché quello che siamo, ci sta portando alla rovina. Perché l'italiano così come è oggi non è in grado di cambiare e deve perciò contaminarsi con altre popolazioni e altre culture.
La situazione e' sempre più grave, l altro giorno leggevo che qui da me in Liguria ogni mese chiudono 10 aziende... E tutto tace!
RispondiEliminaLeggendo ho pensato alle nuvole, quei personaggi così odiosi che si frappongono tra noi e il cielo, come li descrisse De Andrè nel suo bellissimo disco
RispondiEliminaForse il tuo più bel post. Complimenti davvero.
RispondiEliminaCaro Matteo,
RispondiEliminaquesta volta sono profondamente in disaccordo col nucleo centrale di quello che scrivi. Scrivi che la famiglia si rende comunità con una sua priorità sul resto, e che il modello è antieconomico. Ma questo è il modo di pensare dell'ultraliberismo anglosassone sradicante, quello che ci vuole unità perdute in un marasma, senza diritti e senza legami con società e cultura. I valori della famiglia e della tradizione non sono a prescindere negativi (si pensi all'attenzione data dai partiti comunisti alla famiglia tradizionale da un lato e alle sezioni sul territorio dall'altro, all'attenzione data dai vari socialismi alla presenza sul territorio e alla collettivizzazione degli spazi locali).
Il familismo italiano non è un problema perché si basa sulla struttura locale o sulla famiglia, bensì perché lo fa con un sistema a struttura chiusa e soprattutto perché all'interno della famiglia non esiste una struttura di giustizia. Il rifugiarsi nel localismo e la fuga nella xenofobia che vediamo riproporsi in Europa in generale e in Italia in particolare con la Lega deriva da problematiche reali poste da questo mondo globale che ha dimensioni troppo grandi per poter permettere lo sviluppo sano di rapporti umani. Ciò di cui abbiamo bisogno è più territorio, più capillarità, nel senso in cui nel corpo umano il sangue deve arrivare a tutti i punti dell'organismo, e non rimanere nella testa, nel cuore e nei polmoni, altrimenti le estremità si atrofizzano e muoiono. Il tuo ragionamento coincide troppo pericolosamente col modo di intendere la località del capitalismo ultraliberista. E anche la richiesta di contaminazione con le altre culture: per potersi mescolare e creare è necessario avere una sottostruttura, l'immigrazione oggi è solo il "divide et impera" del grande capitale che usa gli immigrati per toglierci i nostri diritti usando persone ancora più disperate di noi come capro espiatorio. Una strategia che sta funzionando perfettamente.
La volpe, mi attribuisci cose che io non ho detto.
RispondiEliminaIo non ho detto che quel modello è antieconomico, anzi, è con questo modello che il capitalismo è nato in Italia. Ho precisato che il Capitale non lo ha distrutto, ma anzi se ne è servito per i propri scopi. Semmai ho detto che questo liberismo familiare finirà per distruggere il nostro paese, ma la distruzione è una delle caratteristiche del liberismo.
Se alcuni liberisti sono contro i gruppi chiusi, questo non significa che noi antiliberisti dobbiamo essere a favore. Tanto è vero che liberismo e struttura clanistica non sono incompatibili e la lega insegna. Penso che in Italia ci sia un residuo di Medioevo, sostanzialmente quello che Marx diceva della Germania dell'epoca, vale anche per l'Italia di oggi. In Italia non c'è mai stata una rivoluzione borghese e per questo ci portiamo ancora dietro qualche retaggio premoderno.
Inoltre ti ricordo che il marxismo criticava la famiglia.
Secondo punto. Io sono contrario al territorialismo, non al "territorio" (che preferisco chiamare "terra" per togliergli quell'accezione militaristica). Per questa ragione sono contrario anche al (neo)federalismo (come scrissi due o tre post fa) cavallo di battaglia della lega (un partito liberista, sottolineo). Il clan è fortemente territorializzato, e per vincere questa territorializzazione ci vuole uno Stato forte, centralizzato, esattamente il contrario di quanto invece vorrebbe il liberismo ed esattamente quello che invece vorrebbe il socialismo rivoluzionario.
Il clan e il familismo sono degli ostacoli ulteriori, perché impediscono l'unità della classe operaia e la lotta contro il capitale.
Non ho detto che l'hai detto, ma sembrava trasparire da quel che hai scritto. ;)
RispondiEliminaSul concetto di uno stato forte, siamo d'accordissimo.