venerdì 29 maggio 2009

Viva l'immigrazione



Il caso dei cosiddetti “respingimenti” di immigrati dalle coste italiane ha generato diverse reazioni nel mondo. L'Unione europea, l'ONU e adesso anche Amnesty International hanno denunciato le politiche del governo italiano che violano i trattati internazionali e i diritti umani perché non vengono verificati i richiedenti asilo.

In Italia si è formato un fronte compatto che crede sia giusto limitare il più possibile l'immigrazione e favorire gli interessi della comunità locale.

Ma questa opinione, purtroppo così largamente diffusa, è molto fondata sui pregiudizi e molto poco su motivazioni logiche e reali.

Analizziamo ciò che propongono gli “anti-immigrazionisti” e vediamo come i loro argomenti al lume della ragione si sciolgano come neve al sole.


Innanzitutto ci sono diverse ragioni che costoro avanzano a sostegno delle loro tesi, e sono di ordine morale, culturale e pratico.


  1. Per quanto riguarda gli argomenti di ordine morale gli anti-immigrazionisti sostengono innanzitutto che ci sarebbe una sorta di precedenza degli italiani nell'usufruire di un certo diritto rispetto agli immigrati.

    Ad esempio nel caso delle assegnazioni di alloggi popolari o di asili nido si dovrebbe dare la precedenza agli italiani sugli stranieri poiché altrimenti un posto assegnato a uno straniero sarebbe sottratto a un italiano.

    A ben vedere però l'argomento non regge minimamente. L'idea di dare la precedenza agli italiani è assolutamente arbitraria. Per quale ragione gli italiani dovrebbero essere privilegiati? Perché sono nati in Italia? E allora? Certo non si può dire si tratti di un merito nascere in Italia o un demerito nascere all'estero. Non abbiamo deciso noi il nostro luogo di nascita. Ma non si capisce perché dovrebbero essere favoriti proprio gli italiani. Con quale criterio si sceglie una classe di persone da privilegiare? Questo non viene spiegato. Di questo passo potrebbe arrivare qualcuno che sostenga che i piemontesi dovrebbero essere favoriti rispetto ai siciliani o che i milanesi dovrebbero esserlo rispetto ai bresciani e così via. Dove ci porterebbero questi discorsi? Le convenzioni internazionali e anche le leggi nazionali non garantiscono diritti sulla base della zona geografica di provenienza.

    Qualcuno potrebbe controbattere che la discriminante non è la nazionalità ma la cittadinanza: un immigrato ha gli stessi diritti di chi è nato in Italia purché sia cittadino italiano. Ma anche in questo caso attueremmo una discriminazione. La cittadinanza infatti per gli italiani è acquisita alla nascita, mentre per gli immigrati solo dopo un lungo percorso burocratico. Quindi ancora una volta sarebbe il luogo di nascita a fare la differenza, che si è visto essere qualcosa di arbitrario.

    Gli anti-immigrazionisti sostengono che gli italiani dovrebbero essere privilegiati perché si trovano in Italia. Mentre se si trovassero in un altro paese sarebbero i nativi di questo paese ad aver diritto a un certo privilegio. Ma per quale ragione lo Stato italiano dovrebbe favorire gli italiani, quello francese i francesi, quello indiano gli indiani e così via? Nelle Costituzioni degli stati democratici non c'è riferimento a un diritto di precedenza dei nativi rispetto agli stranieri. E non si capisce perché una volta assodato il criterio dell'uguaglianza di diritti di tutti gli individui si debba poi distinguere sulla base della natalità.

  2. Per quanto riguarda invece gli argomenti culturali viene affermato che favorire il libero accesso nel nostro stato di popoli diversi finirebbe per disperdere la nostra cultura e quindi per indebolirci.

    Anche qui non si comprende il nesso tra la premessa e la conclusione. Per quale motivo situazioni di sincretismo e di meticciato dovrebbero danneggiarci? Nella storia hanno avuto successo quei popoli che hanno vissuto e accettato situazioni di convivenza tra diverse culture. Si pensi all'Impero Romano. Roma garantì libertà religiosa presso i popoli che conquistava, lasciava immutati lingua, tradizione e costumi e permetteva l'accesso alle massime cariche dello stato anche a individui provenienti dalle diverse Province. Se non avesse attuato questa politica probabilmente la sua esistenza non sarebbe durata più di duemila anni (se si considera anche l'Impero d'Oriente). Oppure si prenda il caso dell'Impero Ottomano. Decretò la fine dell'epoca bizantina ma nei territori occupati, che giungevano fino all'Europa orientale, lasciò una larga libertà di culto. Permise addirittura ai cristiani convertiti di raggiungere alti incarichi ufficiali. I cristiani eretici e gli ebrei, perseguitati nell'Europa cristiana, fuggivano in Turchia e nei paesi arabi dove godevano di una certa libertà. Se non avessero attuato questa politica “multietnica” i turchi non sarebbero riusciti a controllare le zone conquistate per molto tempo.

    In secondo luogo vale lo stesso discorso che si faceva prima: per quale ragione dovrebbe essere la “l'identità nazionale” ammesso che esista qualcosa del genere, a dover essere preservata e non magari una qualche cultura siciliana o abruzzese o lombarda, di contro a quella delle altre regioni? Ancora una volta è una scelta puramente arbitraria. Nessuno ci dice che italiano sia meglio che straniero.

    Ma oltre ad essere errata la conclusione, lo è anche la premessa: infatti non esiste una cultura italiana “originale”, “pura”, che andrebbe a mescolarsi con quella di altre popolazioni. La nostra cosiddetta “identità nazionale” è anch'essa il risultato di diversi “incroci” tra culture, di contaminazioni con tradizioni di popoli molteplici. L'Italia nel corso dei secoli ha vissuto sotto la dominazione di greci, arabi, francesi, spagnoli, austriaci. Nel suo territorio sono transitate popolazioni slave e albanesi con le loro lingue, sono comparse religioni diverse, Cattolicesimo ma anche Protestantesimo, Islam ed Ebraismo. Tutt'ora la lingua italiana assorbe influssi di altre lingue, a cominciare dall'inglese. Tutto ciò ha costituito “l'identità nazionale” italiana. Senza l'unione di diverse culture l'Italia, come diceva Metternich, sarebbe ancora oggi soltanto “un'espressione geografica”.

    Prima dell'unificazione della nostra penisola, e ancora molto tempo dopo, i piemontesi avevano molto più in comune con i francesi che con i siciliani. Probabilmente qualche conservatore all'epoca sosteneva la necessità di preservare “l'identità savoiarda” e guardava a Garibaldi come a un pericolo di smarrimento delle proprie “radici”. Ma la storia sappiamo a chi abbia dato ragione.

    Tanto più assurdo risulta l'argomento culturale se si considera il fatto che la cultura non rispecchia esattamente i confini nazionali. Non è che giunti ai confini delle Alpi italiane termina la nostra “identità” e comincia quella altrui. Non è che un centimetro prima della linea di confine si ha una certa cultura e un centimetro dopo un'altra. I confini molto spesso rispondono a ragioni molto più politiche e militari che culturali. Solo approssimativamente la geografia politica descrive diversi costumi, diverse tradizioni, diverse lingue. Le popolazioni alto-atesine parlano molto più in tedesco che in italiano. Se si visita una di queste città si ha l'impressione di trovarsi nei villaggi bucolici dell'Austria. Qualcosa di molto lontano dal paesaggio calabrese.

    La cultura non solo tende a favorire il meticciato ma è meticciato, perché nasce sempre dalla fusioni di popoli e costumi diversi. Coloro che intendono preservare “l'identità nazionale” di fronte a una “invasione” straniera in realtà non fanno che difendere un meticciato, un multiculturalismo diverso da quello di coloro che intendono ampliarlo.

    La migrazione è un fenomeno epocale. Può darsi che tra cento anni l'Italia sarà un posto completamente diverso in conseguenza dell'apporto di altre culture. Ma dov'è il male in questo? Così come la sua forma attuale è cambiata rispetto al passato, cambierà anche in futuro. È storia.

  3. Infine esiste l'argomento pratico.

    Gli anti-immigrazionisti dicono che favorire l'immigrazione anziché limitarla significa creare tutta una serie di problemi alla nostra società. Il primo sarebbe quello della criminalità. Più immigrati vorrebbe dire anche più criminali. Il problema è che considerano la questione solo dal lato negativo. Gli immigrati sono esseri umani come tutti. E come tutti i gruppi umani portano dei danni ma anche dei benefici alla società. Il punto è che i benefici prevalgono sui danni. Ma su questo torneremo in seguito. Per ora passiamo all'altro argomento pratico, quello secondo cui gli immigrati sottrarrebbero il posto di lavoro agli italiani.

    Gli argomenti precedenti dovrebbero aver già dimostrato come sia assolutamente immotivato privilegiare gli italiani rispetto agli immigrati, per il principio di uguaglianza. Quindi se bisogna scegliere tra un italiano e un immigrato, l'italianità non può essere un requisito per far decidere di lavorare il primo e lasciare senza lavoro il secondo.

    Ma forse non si vuole intendere questo. Forse quello che si vuole intendere è che non si sarebbe in grado di assicurare a tutti il posto di lavoro con un tasso alto di immigrazione.

    Ora questo può anche essere vero. Ma non può essere la ragione per una politica sull'immigrazione restrittiva. Sarebbe il caso di dare quanto meno l'opportunità all'immigrato di cercare lavoro nel nostro paese. Se non lo trova probabilmente sarebbe lui stesso a voler andare in da un'altra parte per cercare lì lavoro. Molto spesso gli stranieri non hanno i mezzi per viaggiare. Allora sarebbe il caso che lo Stato, anziché riportare l'immigrato alla frontiera del paese da cui proviene, assicurandolo alla fame o alla guerra, da cui magari finirebbe per fuggire di nuovo, gli assicurasse i mezzi, se ne è sprovvisto, per recarsi in un posto dove potrebbe trovare lavoro. L'Unione europea potrebbe elaborare un coordinamento tra i vari stati e gestire l'immigrazione in questo modo.

    Abbiamo però dato per scontato che più immigrazione significhi più disoccupazione. Ma è veramente così? Se studiamo bene la faccenda più immigrazione vuol dire più popolazione, quindi più bisogni, quindi più domanda di beni e servizi. Quindi più incentivo a produrre e a lavorare. Più lavoro. Naturalmente lo Stato dovrebbe intervenire per assicurare dei livelli salariali e un'assistenza sociale, che permetta anche agli immigrati di accedere al consumo di beni e servizi. Evidentemente anche i figli degli immigrati vorranno andare a scuola, quindi si dovranno assumere più insegnanti, più personale scolastico, costruire più scuole, quindi impiegare più manodopera. Evidentemente gli immigrati dovranno curarsi, quindi più medici, più infermieri, e così via. Inoltre gli stranieri più capaci e preparati sono una risorsa perché consentono di aumentare la qualità del lavoro L'immigrazione quindi è un'occasione di crescita per il paese che la ospita.


Avevamo lasciato in sospeso un punto. Quello di dimostrare che l'immigrazione apporta più benefici che danni al paese che la ospita.

Innanzitutto bisogna considerare il contesto nel quale si sviluppa il fenomeno migratorio. Molti emigrano per sfuggire da guerre e da persecuzioni. Ma la maggior parte fugge dalla miseria. Anche la guerra in genere provoca una situazione di povertà diffusa tra la popolazione, quindi anche in questo caso è la carenza di risorse la causa, anche se indiretta, dell'emigrazione.

Possiamo dire perciò che si emigra quando in un paese c'è una situazione di sovrappopolazione ovvero le risorse effettivamente disponibili non bastano per tutta la popolazione. Per risorse effettivamente disponibili non intendiamo la ricchezza complessiva, ma quella circolante, di cui può disporre ogni individuo, preso singolarmente. Può darsi che potenzialmente le risorse siano sufficienti, ma non effettivamente perché ad esempio le multinazionali straniere sottraggono materie prime a quel paese.

Viceversa abbiamo una condizione di sottopopolazione quando le ricchezze effettivamente disponibili non solo bastano per tutta la popolazione, ma basterebbero anche in caso di incremento demografico.

I paesi da cui si emigra, sembra ovvio, sono paesi sovrappopolati. E ovviamente si dirigono verso paesi sottopopolati. Tra cui anche l'Italia, la sesta potenza industriale e uno dei paesi con il pil più alto. Può darsi che nei paesi sottopopolati ci siano casi di povertà localizzata. Ma la ragione di questo è la mancanza di una equa distribuzione, non la mancanza di ricchezza effettiva.

Dunque i migranti lasciano paesi sovrappopolati per andare verso paesi sottopopolati. Come il principio fisico dei vasi comunicanti: così come si raggiungere lo stesso livello di riempimento in tutti i vasi così nella società si tende a raggiungere, quando si presenta un dislivello, lo stesso rapporto tra popolazione e risorse in tutti i paesi. Naturalmente si parla in senso approssimativo, trattandosi di fenomeni sociali e perciò soggetti a infinite variabili, non si pretende la precisione matematica. Ma la tendenza è delineata.

Ora a ben vedere questo fenomeno dei vasi comunicanti va a beneficare il paese da cui sono partiti i migranti. Non solo perché questi, recandosi in un paese sottopopolato, con più risorse disponibili, guadagnano di più che nei loro paesi d'origine e mandano una parte del loro guadagno alle loro famiglie, permettendo così una crescita economica del loro paese; ma anche perché si riequilibra quello scarto tra popolazione e risorse. Poiché una parte della popolazione fugge dai paesi sovrappopolati, la popolazione diminuisce e quindi le ricchezze effettive diventano disponibili per una fetta sempre crescente di popolazione in proporzione al crescere dell'emigrazione. In altre parole non solo i migranti, ma anche gli abitanti del paese dal quale provengono tendono a migliorare la loro condizione.

Non solo. Ma giova anche al paese verso il quale è diretto il fenomeno migratorio. Infatti uno dei problemi dei paesi sovrappopolati è che essendo paesi in cui la natalità è, al pari della mortalità, molto bassa, la fascia di popolazione sopra i 60 anni è più numerosa. Quindi più aumenta la sottopolazione (e in Europa e in Italia soprattutto è quello che sta avvenendo) più diminuisce la disponibilità di individui produttivi o altamente produttivi, poiché l'età media si alza. Questo significa che c'è una fascia sempre crescente di popolazione improduttiva o parzialmente produttiva (un lavoratore che ha superato i 50 anni non è paragonabile a uno con meno di 30 anni nel pieno delle sue energie psico-fisiche) i cui bisogni devono essere soddisfatti. Bisogna assicurare ad esempio un reddito a chi va in pensione e smette di produrre. Aumentando l'età poi aumentano anche i disagi fisici e le malattia e quindi le spese sanitarie. A ciò bisogna aggiungere i servizi di assistenza sociale (per disabili, anziani, disoccupati, ecc.) e di welfare. Tutto questo diventa sempre più difficile da assicurare col calo della natalità e con l'allungarsi dell'età. Gli immigrati, provenienti da paesi sovrappopolati, possono colmare questo deficit e reintegrare le energie che il paese sottopopolato va perdendo. Infatti i migranti in genere appartengono a una fascia di età compresa tra i 20 e i 40 anni, quindi abbastanza giovane, nel pieno delle sue capacità produttive.

L'Unione europea ha calcolato che per mantenere gli attuali livelli di welfare saranno necessari entro il 2060 almeno 50 milioni di immigrati extracomunitari. Cioè non dobbiamo calcolare l'immigrazione interna, quella proveniente da paesi dell'Unione. In Italia se si sottraggono gli immigrati rumeni, la cifra si abbassa notevolmente.

Tutto questo ci fa concludere che l'immigrazione favorisce sia i paesi di provenienza che quelli di arrivo. Se a questo si aggiunge che “effetti collaterali” come la criminalità possono essere combattuti attraverso un processo di integrazione nel tessuto sociale bisogna dedurne che le politiche “immigrazioniste” sono di gran lunga preferibili, per tutti, a quelle di contenimento e restrittive.

Infine per concludere guardiamo un aspetto più giuridico della vicenda. Ovvero la questione della regolarizzazione degli stranieri e dei cosiddetti clandestini.

Lo Stato dovrebbe favorire la regolarizzazione degli immigrati. Altrimenti le conseguenze sono deleterie.

Infatti gli immigrati irregolari sono facilmente ricattabili, poiché possono essere licenziati senza giustificazione, non avendo contratto, o addirittura denunciati alle autorità. Questo va a scapito anche dei lavoratori italiani che a loro volta vengono ricattati di essere sostituiti da manodopera a basso prezzo. Allora converrebbe regolarizzare tutti gli immigrati che lavorano, anche in nero, in modo che questi abbiano l'interesse a denunciare un reato e a rientrare nella legalità. Se gli immigrati hanno un permesso di soggiorno possono ottenere maggiori diritti. Il problema allora non sono i clandestini, ma le politiche dei governi. La clandestinità la creano politiche sbagliate e restrittive che rendono difficile il processo di regolarizzazione e mettono nelle condizioni di essere ricattati i lavoratori, sia italiani che stranieri.

Possiamo quindi affermare ormai che l'unica identità da difendere e che siamo interessati a difendere è una sola, per tutti, quella della specie umana.

2 commenti:

  1. "Con quale criterio si sceglie una classe di persone da privilegiare?"

    È lo stesso criterio che sta alla base dell'idea di famiglia, l'idea secondo la quale i padri lavorano per dare un avvenire ai figli e i figli ereditano ciò che hanno costruito i loro padri.
    Secondo questa logica, l'Italia è il paese che i nostri padri hanno costruito e ci hanno lasciato in eredità.
    È il nostro paese e noi abbiamo il dovere di preservarlo da indebite intrusioni e trasmetterlo ai nostri figli così come lo abbiamo ereditato, o ancora migliore.

    Questa è la logica (da me non condivisa) che muove gli animi contro il fenomeno dell'immigrazione.
    Ma, per cambiarla, occorre prima cambiare la logica della famiglia.

    Nota:
    In generale, ho apprezzato il contenuto e lo spirito del tuo post.

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  2. A me non è chiaro PERCHE' loro sostengono che deve essere proprio la nascita a costituire fattore discriminante. E' puramente arbitrario.

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