venerdì 29 maggio 2009

Viva l'immigrazione



Il caso dei cosiddetti “respingimenti” di immigrati dalle coste italiane ha generato diverse reazioni nel mondo. L'Unione europea, l'ONU e adesso anche Amnesty International hanno denunciato le politiche del governo italiano che violano i trattati internazionali e i diritti umani perché non vengono verificati i richiedenti asilo.

In Italia si è formato un fronte compatto che crede sia giusto limitare il più possibile l'immigrazione e favorire gli interessi della comunità locale.

Ma questa opinione, purtroppo così largamente diffusa, è molto fondata sui pregiudizi e molto poco su motivazioni logiche e reali.

Analizziamo ciò che propongono gli “anti-immigrazionisti” e vediamo come i loro argomenti al lume della ragione si sciolgano come neve al sole.


Innanzitutto ci sono diverse ragioni che costoro avanzano a sostegno delle loro tesi, e sono di ordine morale, culturale e pratico.


  1. Per quanto riguarda gli argomenti di ordine morale gli anti-immigrazionisti sostengono innanzitutto che ci sarebbe una sorta di precedenza degli italiani nell'usufruire di un certo diritto rispetto agli immigrati.

    Ad esempio nel caso delle assegnazioni di alloggi popolari o di asili nido si dovrebbe dare la precedenza agli italiani sugli stranieri poiché altrimenti un posto assegnato a uno straniero sarebbe sottratto a un italiano.

    A ben vedere però l'argomento non regge minimamente. L'idea di dare la precedenza agli italiani è assolutamente arbitraria. Per quale ragione gli italiani dovrebbero essere privilegiati? Perché sono nati in Italia? E allora? Certo non si può dire si tratti di un merito nascere in Italia o un demerito nascere all'estero. Non abbiamo deciso noi il nostro luogo di nascita. Ma non si capisce perché dovrebbero essere favoriti proprio gli italiani. Con quale criterio si sceglie una classe di persone da privilegiare? Questo non viene spiegato. Di questo passo potrebbe arrivare qualcuno che sostenga che i piemontesi dovrebbero essere favoriti rispetto ai siciliani o che i milanesi dovrebbero esserlo rispetto ai bresciani e così via. Dove ci porterebbero questi discorsi? Le convenzioni internazionali e anche le leggi nazionali non garantiscono diritti sulla base della zona geografica di provenienza.

    Qualcuno potrebbe controbattere che la discriminante non è la nazionalità ma la cittadinanza: un immigrato ha gli stessi diritti di chi è nato in Italia purché sia cittadino italiano. Ma anche in questo caso attueremmo una discriminazione. La cittadinanza infatti per gli italiani è acquisita alla nascita, mentre per gli immigrati solo dopo un lungo percorso burocratico. Quindi ancora una volta sarebbe il luogo di nascita a fare la differenza, che si è visto essere qualcosa di arbitrario.

    Gli anti-immigrazionisti sostengono che gli italiani dovrebbero essere privilegiati perché si trovano in Italia. Mentre se si trovassero in un altro paese sarebbero i nativi di questo paese ad aver diritto a un certo privilegio. Ma per quale ragione lo Stato italiano dovrebbe favorire gli italiani, quello francese i francesi, quello indiano gli indiani e così via? Nelle Costituzioni degli stati democratici non c'è riferimento a un diritto di precedenza dei nativi rispetto agli stranieri. E non si capisce perché una volta assodato il criterio dell'uguaglianza di diritti di tutti gli individui si debba poi distinguere sulla base della natalità.

  2. Per quanto riguarda invece gli argomenti culturali viene affermato che favorire il libero accesso nel nostro stato di popoli diversi finirebbe per disperdere la nostra cultura e quindi per indebolirci.

    Anche qui non si comprende il nesso tra la premessa e la conclusione. Per quale motivo situazioni di sincretismo e di meticciato dovrebbero danneggiarci? Nella storia hanno avuto successo quei popoli che hanno vissuto e accettato situazioni di convivenza tra diverse culture. Si pensi all'Impero Romano. Roma garantì libertà religiosa presso i popoli che conquistava, lasciava immutati lingua, tradizione e costumi e permetteva l'accesso alle massime cariche dello stato anche a individui provenienti dalle diverse Province. Se non avesse attuato questa politica probabilmente la sua esistenza non sarebbe durata più di duemila anni (se si considera anche l'Impero d'Oriente). Oppure si prenda il caso dell'Impero Ottomano. Decretò la fine dell'epoca bizantina ma nei territori occupati, che giungevano fino all'Europa orientale, lasciò una larga libertà di culto. Permise addirittura ai cristiani convertiti di raggiungere alti incarichi ufficiali. I cristiani eretici e gli ebrei, perseguitati nell'Europa cristiana, fuggivano in Turchia e nei paesi arabi dove godevano di una certa libertà. Se non avessero attuato questa politica “multietnica” i turchi non sarebbero riusciti a controllare le zone conquistate per molto tempo.

    In secondo luogo vale lo stesso discorso che si faceva prima: per quale ragione dovrebbe essere la “l'identità nazionale” ammesso che esista qualcosa del genere, a dover essere preservata e non magari una qualche cultura siciliana o abruzzese o lombarda, di contro a quella delle altre regioni? Ancora una volta è una scelta puramente arbitraria. Nessuno ci dice che italiano sia meglio che straniero.

    Ma oltre ad essere errata la conclusione, lo è anche la premessa: infatti non esiste una cultura italiana “originale”, “pura”, che andrebbe a mescolarsi con quella di altre popolazioni. La nostra cosiddetta “identità nazionale” è anch'essa il risultato di diversi “incroci” tra culture, di contaminazioni con tradizioni di popoli molteplici. L'Italia nel corso dei secoli ha vissuto sotto la dominazione di greci, arabi, francesi, spagnoli, austriaci. Nel suo territorio sono transitate popolazioni slave e albanesi con le loro lingue, sono comparse religioni diverse, Cattolicesimo ma anche Protestantesimo, Islam ed Ebraismo. Tutt'ora la lingua italiana assorbe influssi di altre lingue, a cominciare dall'inglese. Tutto ciò ha costituito “l'identità nazionale” italiana. Senza l'unione di diverse culture l'Italia, come diceva Metternich, sarebbe ancora oggi soltanto “un'espressione geografica”.

    Prima dell'unificazione della nostra penisola, e ancora molto tempo dopo, i piemontesi avevano molto più in comune con i francesi che con i siciliani. Probabilmente qualche conservatore all'epoca sosteneva la necessità di preservare “l'identità savoiarda” e guardava a Garibaldi come a un pericolo di smarrimento delle proprie “radici”. Ma la storia sappiamo a chi abbia dato ragione.

    Tanto più assurdo risulta l'argomento culturale se si considera il fatto che la cultura non rispecchia esattamente i confini nazionali. Non è che giunti ai confini delle Alpi italiane termina la nostra “identità” e comincia quella altrui. Non è che un centimetro prima della linea di confine si ha una certa cultura e un centimetro dopo un'altra. I confini molto spesso rispondono a ragioni molto più politiche e militari che culturali. Solo approssimativamente la geografia politica descrive diversi costumi, diverse tradizioni, diverse lingue. Le popolazioni alto-atesine parlano molto più in tedesco che in italiano. Se si visita una di queste città si ha l'impressione di trovarsi nei villaggi bucolici dell'Austria. Qualcosa di molto lontano dal paesaggio calabrese.

    La cultura non solo tende a favorire il meticciato ma è meticciato, perché nasce sempre dalla fusioni di popoli e costumi diversi. Coloro che intendono preservare “l'identità nazionale” di fronte a una “invasione” straniera in realtà non fanno che difendere un meticciato, un multiculturalismo diverso da quello di coloro che intendono ampliarlo.

    La migrazione è un fenomeno epocale. Può darsi che tra cento anni l'Italia sarà un posto completamente diverso in conseguenza dell'apporto di altre culture. Ma dov'è il male in questo? Così come la sua forma attuale è cambiata rispetto al passato, cambierà anche in futuro. È storia.

  3. Infine esiste l'argomento pratico.

    Gli anti-immigrazionisti dicono che favorire l'immigrazione anziché limitarla significa creare tutta una serie di problemi alla nostra società. Il primo sarebbe quello della criminalità. Più immigrati vorrebbe dire anche più criminali. Il problema è che considerano la questione solo dal lato negativo. Gli immigrati sono esseri umani come tutti. E come tutti i gruppi umani portano dei danni ma anche dei benefici alla società. Il punto è che i benefici prevalgono sui danni. Ma su questo torneremo in seguito. Per ora passiamo all'altro argomento pratico, quello secondo cui gli immigrati sottrarrebbero il posto di lavoro agli italiani.

    Gli argomenti precedenti dovrebbero aver già dimostrato come sia assolutamente immotivato privilegiare gli italiani rispetto agli immigrati, per il principio di uguaglianza. Quindi se bisogna scegliere tra un italiano e un immigrato, l'italianità non può essere un requisito per far decidere di lavorare il primo e lasciare senza lavoro il secondo.

    Ma forse non si vuole intendere questo. Forse quello che si vuole intendere è che non si sarebbe in grado di assicurare a tutti il posto di lavoro con un tasso alto di immigrazione.

    Ora questo può anche essere vero. Ma non può essere la ragione per una politica sull'immigrazione restrittiva. Sarebbe il caso di dare quanto meno l'opportunità all'immigrato di cercare lavoro nel nostro paese. Se non lo trova probabilmente sarebbe lui stesso a voler andare in da un'altra parte per cercare lì lavoro. Molto spesso gli stranieri non hanno i mezzi per viaggiare. Allora sarebbe il caso che lo Stato, anziché riportare l'immigrato alla frontiera del paese da cui proviene, assicurandolo alla fame o alla guerra, da cui magari finirebbe per fuggire di nuovo, gli assicurasse i mezzi, se ne è sprovvisto, per recarsi in un posto dove potrebbe trovare lavoro. L'Unione europea potrebbe elaborare un coordinamento tra i vari stati e gestire l'immigrazione in questo modo.

    Abbiamo però dato per scontato che più immigrazione significhi più disoccupazione. Ma è veramente così? Se studiamo bene la faccenda più immigrazione vuol dire più popolazione, quindi più bisogni, quindi più domanda di beni e servizi. Quindi più incentivo a produrre e a lavorare. Più lavoro. Naturalmente lo Stato dovrebbe intervenire per assicurare dei livelli salariali e un'assistenza sociale, che permetta anche agli immigrati di accedere al consumo di beni e servizi. Evidentemente anche i figli degli immigrati vorranno andare a scuola, quindi si dovranno assumere più insegnanti, più personale scolastico, costruire più scuole, quindi impiegare più manodopera. Evidentemente gli immigrati dovranno curarsi, quindi più medici, più infermieri, e così via. Inoltre gli stranieri più capaci e preparati sono una risorsa perché consentono di aumentare la qualità del lavoro L'immigrazione quindi è un'occasione di crescita per il paese che la ospita.


Avevamo lasciato in sospeso un punto. Quello di dimostrare che l'immigrazione apporta più benefici che danni al paese che la ospita.

Innanzitutto bisogna considerare il contesto nel quale si sviluppa il fenomeno migratorio. Molti emigrano per sfuggire da guerre e da persecuzioni. Ma la maggior parte fugge dalla miseria. Anche la guerra in genere provoca una situazione di povertà diffusa tra la popolazione, quindi anche in questo caso è la carenza di risorse la causa, anche se indiretta, dell'emigrazione.

Possiamo dire perciò che si emigra quando in un paese c'è una situazione di sovrappopolazione ovvero le risorse effettivamente disponibili non bastano per tutta la popolazione. Per risorse effettivamente disponibili non intendiamo la ricchezza complessiva, ma quella circolante, di cui può disporre ogni individuo, preso singolarmente. Può darsi che potenzialmente le risorse siano sufficienti, ma non effettivamente perché ad esempio le multinazionali straniere sottraggono materie prime a quel paese.

Viceversa abbiamo una condizione di sottopopolazione quando le ricchezze effettivamente disponibili non solo bastano per tutta la popolazione, ma basterebbero anche in caso di incremento demografico.

I paesi da cui si emigra, sembra ovvio, sono paesi sovrappopolati. E ovviamente si dirigono verso paesi sottopopolati. Tra cui anche l'Italia, la sesta potenza industriale e uno dei paesi con il pil più alto. Può darsi che nei paesi sottopopolati ci siano casi di povertà localizzata. Ma la ragione di questo è la mancanza di una equa distribuzione, non la mancanza di ricchezza effettiva.

Dunque i migranti lasciano paesi sovrappopolati per andare verso paesi sottopopolati. Come il principio fisico dei vasi comunicanti: così come si raggiungere lo stesso livello di riempimento in tutti i vasi così nella società si tende a raggiungere, quando si presenta un dislivello, lo stesso rapporto tra popolazione e risorse in tutti i paesi. Naturalmente si parla in senso approssimativo, trattandosi di fenomeni sociali e perciò soggetti a infinite variabili, non si pretende la precisione matematica. Ma la tendenza è delineata.

Ora a ben vedere questo fenomeno dei vasi comunicanti va a beneficare il paese da cui sono partiti i migranti. Non solo perché questi, recandosi in un paese sottopopolato, con più risorse disponibili, guadagnano di più che nei loro paesi d'origine e mandano una parte del loro guadagno alle loro famiglie, permettendo così una crescita economica del loro paese; ma anche perché si riequilibra quello scarto tra popolazione e risorse. Poiché una parte della popolazione fugge dai paesi sovrappopolati, la popolazione diminuisce e quindi le ricchezze effettive diventano disponibili per una fetta sempre crescente di popolazione in proporzione al crescere dell'emigrazione. In altre parole non solo i migranti, ma anche gli abitanti del paese dal quale provengono tendono a migliorare la loro condizione.

Non solo. Ma giova anche al paese verso il quale è diretto il fenomeno migratorio. Infatti uno dei problemi dei paesi sovrappopolati è che essendo paesi in cui la natalità è, al pari della mortalità, molto bassa, la fascia di popolazione sopra i 60 anni è più numerosa. Quindi più aumenta la sottopolazione (e in Europa e in Italia soprattutto è quello che sta avvenendo) più diminuisce la disponibilità di individui produttivi o altamente produttivi, poiché l'età media si alza. Questo significa che c'è una fascia sempre crescente di popolazione improduttiva o parzialmente produttiva (un lavoratore che ha superato i 50 anni non è paragonabile a uno con meno di 30 anni nel pieno delle sue energie psico-fisiche) i cui bisogni devono essere soddisfatti. Bisogna assicurare ad esempio un reddito a chi va in pensione e smette di produrre. Aumentando l'età poi aumentano anche i disagi fisici e le malattia e quindi le spese sanitarie. A ciò bisogna aggiungere i servizi di assistenza sociale (per disabili, anziani, disoccupati, ecc.) e di welfare. Tutto questo diventa sempre più difficile da assicurare col calo della natalità e con l'allungarsi dell'età. Gli immigrati, provenienti da paesi sovrappopolati, possono colmare questo deficit e reintegrare le energie che il paese sottopopolato va perdendo. Infatti i migranti in genere appartengono a una fascia di età compresa tra i 20 e i 40 anni, quindi abbastanza giovane, nel pieno delle sue capacità produttive.

L'Unione europea ha calcolato che per mantenere gli attuali livelli di welfare saranno necessari entro il 2060 almeno 50 milioni di immigrati extracomunitari. Cioè non dobbiamo calcolare l'immigrazione interna, quella proveniente da paesi dell'Unione. In Italia se si sottraggono gli immigrati rumeni, la cifra si abbassa notevolmente.

Tutto questo ci fa concludere che l'immigrazione favorisce sia i paesi di provenienza che quelli di arrivo. Se a questo si aggiunge che “effetti collaterali” come la criminalità possono essere combattuti attraverso un processo di integrazione nel tessuto sociale bisogna dedurne che le politiche “immigrazioniste” sono di gran lunga preferibili, per tutti, a quelle di contenimento e restrittive.

Infine per concludere guardiamo un aspetto più giuridico della vicenda. Ovvero la questione della regolarizzazione degli stranieri e dei cosiddetti clandestini.

Lo Stato dovrebbe favorire la regolarizzazione degli immigrati. Altrimenti le conseguenze sono deleterie.

Infatti gli immigrati irregolari sono facilmente ricattabili, poiché possono essere licenziati senza giustificazione, non avendo contratto, o addirittura denunciati alle autorità. Questo va a scapito anche dei lavoratori italiani che a loro volta vengono ricattati di essere sostituiti da manodopera a basso prezzo. Allora converrebbe regolarizzare tutti gli immigrati che lavorano, anche in nero, in modo che questi abbiano l'interesse a denunciare un reato e a rientrare nella legalità. Se gli immigrati hanno un permesso di soggiorno possono ottenere maggiori diritti. Il problema allora non sono i clandestini, ma le politiche dei governi. La clandestinità la creano politiche sbagliate e restrittive che rendono difficile il processo di regolarizzazione e mettono nelle condizioni di essere ricattati i lavoratori, sia italiani che stranieri.

Possiamo quindi affermare ormai che l'unica identità da difendere e che siamo interessati a difendere è una sola, per tutti, quella della specie umana.

mercoledì 27 maggio 2009

Morti di lavoro


I sindacati confederali hanno dichiarato sciopero dopo l'ennesima vicenda di morti assassinati sul lavoro. E' successo questa volta a tre operai della Saras, l'industria dei Moratti.
E' la dimostrazione che in questo paese tutti sono bravi a fare appelli, ma poi si persegue nelle solite politiche che portano a questi omicidi veri e propri.
Il governo ha infatti depenalizzato le infrazioni contro la sicurezza sul lavoro. Ha promosso incentivi sull'orario di lavoro strordinario che è statisticamente dimostrato faccia aumentare gli incidenti, a causa della stanzhezza e dell'abbassamento dell'attenzione. Ora i Moratti "si stringono attorno i parenti delle vittime", come a suo tempo fecero i padroni della Thyssen.
Gli industriali sono sempre pronti a omaggiare chi muore nelle loro fabbriche, eppure hanno levato le loro scuri quando il precedente governo Prodi ha tentato di aumentare le sanzioni per le aziende che non rispettano le normative sulla sicurezza. Allora avevano parlato, come sempre quando si tratta di privilegiati, di "politiche repressive". Ma delle politiche repressive che le industrie impongono agli operai con turni di lavoro massacranti e contratti instabili nessuno parla.
E adesso siamo ancora a omaggiare dei morti.

martedì 26 maggio 2009

Libri: "l'Ideologia tedesca"

Sinora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell'uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall'immaginazione, sotto il cui giogo essi languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri. Insegniamo loro a sostituire queste immaginazioni con pensieri che corrispondano all'essenza dell'uomo, dice uno; a comportarsi criticamente verso di esse, dice un altro; a togliersele dalla testa, dice un terzo, e la realtà ora esistente andrà in pezzi.


Così comincia l'Ideologia tedesca l'importante opera con cui Marx ed Engels prendono le distanze dalla “sinistra hegeliana” e dall'idealismo in generale.

Dopo la morte di Hegel infatti si erano formate due correnti: la “sinistra” e la “destra” hegeliana. La prima vedeva, interpretando l'opera del maestro in senso progressista, la razionalizzazione del reale quale necessaria svolta storica. La seconda invece riteneva che il reale fosse già di per sé razionale e ciò politicamente si traduceva in una posizione conservatrice.

I teorici della “sinistra”, in genere, sostenevano posizioni democratiche – anche se ciò non è sempre vero, come nel caso di Strauss – e contestavano la religione fino a concepire un aperto ateismo (Feuerbach).

Marx inizialmente era stato vicino a quest'ultima posizione, aveva frequentato i più importanti teorici rivoluzionari dell'epoca (Bruno Bauer, Marx Stirner, Ludwig Feuerbach) ma poi in seguito se ne era distaccato radicalmente. Aveva così iniziato quel percorso che avrebbe portato all'elaborazione di una teoria esplosiva: il materialismo storico. L'originalità non sta nel ricorso alla filosofia materialista, laddove i teorici di scuola hegeliana di destra o di sinistra erano tutti idealisti , ma della sintesi di questo materialismo con una concezione dialettica della storia. La dure condizione delle classi operaie che Friedrich Engels, figlio di un ricco industriale, aveva constatato furono poi determinati nella svolta dei due pensatori. Prese così forma la dottrina comunista, debitrice nei confronti non tanto dei socialisti “utopistici” come Owen o Proudhon, aspramente criticati, ma dei “vecchi” comunisti che si ritrovavano nella lega dei Giusti (divenuta poi Lega dei comunisti dopo l'apporto marxiano).

L'ideologia tedesca del 1846 (due anni prima del Manifesto) è un testo fondamentale perché oltre a formulare la critica nei confronti dei rivoluzionari hegeliani, accusati di essere rivoluzionari solo a parole, esprime anche una concezione del mondo radicalmente differente da quella comunemente diffusa, non solo tra le classi alte, ma anche tra le masse popolari. La concezione che la religione aveva contribuito ampiamente a diffondere e che Feuerbach aveva tentato di ribaltare anche se, a detta di Marx d Engels, con scarsi risultati.

La vera questione del testo è: da dove traggono origine le idee degli uomini? Dalla mente di Dio? Da quella degli uomini stessi? Dalla manifestazione dello Spirito? Queste erano le risposte che comunemente venivano fornite.


I Vecchi hegeliani avevano compreso qualsiasi cosa, non appena l'avevano ricondotta ad una categoria logica hegeliana. I Giovani hegeliani criticarono qualsiasi cosa scoprendo in essa idee religiose o definendola teologica.


Dunque l'approccio è lo stesso in entrambi i casi. Per questa “mania” di far derivare tutto dalla religione i due autori si prendono perfino gioco di Bauer e di Stirner, soprannominati San Bruno e San Max, un'accusa pesantissima, perché li pone sullo stesso piano dei loro conclamati avversari.

Per i “Giovani hegeliani” sono dunque i pensieri, le “rappresentazioni” ciò che opprimono gli uomini. Come diceva Feuerbach l'Uomo si spoglia per dare a Dio. Crea un concetto talmente potente da divenirne infine schiavo. Il creatore finisce per essere divorato dalla sua creatura. Ma:


A nessuno di questi filosofi, è venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro proprio ambiente materiale.


Se ci si limita alle idee non si potrà far altro che opporre altre idee, ma la realtà materiale, concreta resta lì immutata e non cambia per il semplice fatto che qualcuno sostiene, per quanto a ragione, che Dio è la creatura e non il creatore degli uomini.

Si è spesso fatto riferimento agli uomini in quanto esseri dotati di coscienza, ma in realtà


Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione.


È quindi la produzione dei mezzi di sussistenza a definire realmente, anziché astrattamente, ciò che gli individui sono ed essa


non appare che con l'aumento della popolazione. E presuppone a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione.


A questo punto vengono delineate le tappe storiche, dalla società tribale alla creazione dello Stato, dagli ordini feudali al sorgere del “mercato mondiale”.

Innanzitutto è stata la divisione del lavoro, tra lavoro agricolo e artigianale prima e tra industria e commercio poi, a determinare la divisione tra gli individui e quindi i diversi rapporti di forza, le catene vere. Con lo sviluppo delle forze produttive evolve di pari grado la divisione del lavoro. Così da una condizione di minima divisione, quella della società tribale, si giunge ad una situazione in cui la divisione della produzione è portata al massimo grado, come in epoca contemporanea.

Effetto della divisione del lavoro è anche la distinzione tra impiego intellettuale e manuale. Le masse lavoratrici rendono possibile a una parte minoritaria della società di dimenticarsi dei bisogni immediati della produzione di beni e dedicarsi così alla produzione delle idee. Di qui nasce l'illusione che siano le idee e l'attività intellettuale a generare quella materiale, ma questa è una falsa deduzione che nasce a posteriori, solo una volta che è già in atto il processo di divisione del lavoro.

Così


Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo.


La comune rappresentazione è quella secondo cui sono le idee a guidare i processi storici e politici e invece


Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero.


La produzione e la divisione del lavoro generano tutti quei rapporti tra gli uomini e le idee che li giustificano. Ognuno a una propria attività e una propria condizione alla quale non può sottrarsi.


Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico


Ognuno quindi è determinato nella sua vita dalla società nella quale vive. Solo nella società comunista gli uomini sono sciolti da queste costrizioni:


nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere , la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosi come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.


Il cristallizzarsi dell'attività di ogni individuo spiega la separazione tra “interesse collettivo” e “interesse particolare” e come il primo finisca per apparire qualcosa di autonomo e distaccato dal singolo individuo per dominarlo: l'apparato, lo Stato che sovrasta il singolo e lo domina.

Lo Stato nella realtà esprime l'interesse di una classe particolare, quella dominante, anche se l'ideologia dei dominatori parla di interesse generale.


Tutte le lotte quindi non sono altro che lotte tra classi e la storia è una storia di questa lotta, anche se assumono la forma di scontri per la monarchia, per la democrazia e così via. Alla base non ci sono le idee, che non sono altro che un prodotto secondario, ma le forze produttive realmente operanti e il loro sviluppo finisce per determinare la forma sociale e politica più adeguata alla loro situazione storica.

La rivoluzione proletaria non è quindi l'attuazione di una tensione ideale, ma il risultato delle forze produttive in campo, della storia. Lo stesso mercato, luogo di affermazione della borghesia, e la sua affermazione su scala mondiale, pone i presupposti per l'ascesa del proletariato, lo rende internazionale, supera le barriere, prodotto di un'epoca storica precedente, nazionali, linguistiche e religiose e rende i proletari un'unica classe pronta a rovesciare l'ordine costituito.


Ancora oggi, a più di un secolo e mezzo di distanza, l'opera di Marx e di Engels può offrire un valido contributo alla comprensione dei processi sociali ed economici in atto e il modo in cui i detentori del potere cercano di giustificare l'ordine esistente. Può spiegare ad esempio, in un'epoca di distacco tra classi dirigenti e masse popolari, la contraddizione tra “l'interesse nazionale”, più volte sbandierato per giustificare guerre e atrocità in tutto il mondo o per favorire grandi gruppi industriali e finanziari, e il vero interesse, quello dei detentori che difendono i loro privilegi.

Certo, il materialismo interpretativo, la preminenza data ai fatti economici concreti è senz'altro, ancora oggi, malgrado tutto quello che se ne sia detto, proficuo e interessante, ma non è in grado di rendere conto, nell'era dei grandi apparati di propaganda, dei “mass media” la manipolazione della “coscienza”, proprio quella coscienza che la teoria marxiana pone alla fine del processo produttivo e che invece oggi sembra condizionare pesantemente non solo la vita politica, ma anche lo stesso operato “materiale” degli individui. Basti pensare a quanto le grandi multinazionali investono in pubblicità e quanto i partiti politici tengano all'”immagine” e alla propaganda.

Compito del marxismo, oggi, ripensare il rapporto tra le due sfere sociali evitando i due estremi: da un lato quello di chi, gettando l'acqua sporca con tutto il bambino, rinnega in toto l'approccio materialista e dialettico, dall'altro quello di chi intende assestarsi su un'anacronistica difesa anche delle posizioni ormai emendate dalla storia e dallo sviluppo, repentino e imprevedibile nel 1846, delle forze produttive.

lunedì 25 maggio 2009

La Santa Alleanza: Berlusconi-Confindustria



Tra il balbettio confuso dell'opposizione parlamentare Berlusconi continua il suo attacco alle istituzione democratiche, portando avanti la sua strategia volta a scardinare il fondamento democratico delle istituzioni e ridurle sotto il suo controllo. Dopo aver attaccato la magistratura, adesso è la volta del parlamento. Il pretesto è dato dalla proposta demagogica di ridurre il numero dei parlamentari, con la conseguenza di ridurre anche la democrazia, e di rendere più forte un governo già troppo forte.

Tutto è cominciato all'assemblea di Confindustria. Mentre i giornali e le televisioni, anche quelle non filogovernative, cadevano nella trappola di farsi distrarre da una battuta di Berlusconi sulla presidentessa degli industriali Marcegaglia, il capo di governo iniziava a sferrare uno dei colpi più duri alla Costituzione.

Quando infatti la Marcegaglia ha esortato il governo a fare “le riforme” (ci sarebbe da chiedersi quali riforme, forse quelle contro il lavoro già preparate dal ministro Sacconi e che farebbero tanto comodo a Confindustria?) Berlusconi ha colto l'occasione per dire che in Italia queste “riforme” non si possono fare se non si rafforza il governo. Da lì è partita tutta una campagna che mira a legittimare questo nuovo cesarismo e a delegittimare ogni altro potere diverso da quello esecutivo (magistratura e parlamento). L'obiettivo è chiaro: in cambio di un ulteriore aggressione ai lavoratori attraverso la destrutturazione del welfare che ancora rimane che farebbe comodo a Confindustria ci si assicura l'appoggio degli imprenditori nel tentativo di svuotamento dei meccanismi democratici dello Stato. Il Ministro Sacconi ha già pronto il nuovo pacchetto antioperaio: privatizzazioni, aumento dell'età pensionabile e abolizione dello Statuto dei lavoratori. E ha già ottenuto la limitazione del diritto di sciopero. Tutto questo porta a una spirale perversa: le “riforme” sono il pretesto per andare verso una deriva autoritaria e questa permette sempre più provvedimenti antipopolari (seppur non sempre impopolari a causa dell'informazione di regime). Più “riforme”, meno democrazia; meno democrazia, più “riforme”.

venerdì 22 maggio 2009

Manifesto eretico



Nell'era della televisione spazzatura, della cultura kitsch, del “sonno delle coscienze” e del superficiale come ultima ideologia del capitalismo mondiale e nazionale la rete appare come un valido strumento per contrastare l'egemonia ideologica, oltre che reale, del marcato globale.

Questo blog intende aprire uno squarcio, anche piccolo, nella fitta coltre di oscurità che è calata sulla coscienza degli uomini contemporanei, e italiani in particolare.

Gli ideologi di questa borghesia conservatrice, razzista e clericale che porta impresso il marchio, di cui va tanto fiera, del “made in Italy”, vogliono far passare l'idea che la rassegnazione al messianesimo del berlusconismo, al suo modello reazionario, opportunista e xenofobo, sia l'unica prospettiva valida per l'Italia.

Di fronte a una simile menzogna questo blog intende presentare, nella sua concretezza, la precarietà della condizione sociale delle masse, smentire la teoria della guerra tra poveri (italiani contro immigrati, giovani contro anziani, lavoratori stabili contro precari) quale soluzione alla crisi internazionale del capitalismo contemporaneo e mostrare che l'interesse delle classi sfruttate, dei lavoratori, ma anche della piccola borghesia, non è la falsa alternativa liberismo/statalismo, entrambi interventi calati dall'alto da una elite politica e imprenditoriale, ma l'unità nella difesa dei dritti sociali conquistati con anni di lotte e che adesso la destra sta tentando di erodere col suo consenso artificiale creato sulla base di un monopolio dei mezzi di informazione e di cultura.

Al “nulla di nuovo sotto il sole” dei politicanti al servizio della lobby industriale e bancaria, opponiamo quindi una autentica “eresia”, una denuncia della contraddizione tra la rappresentazione del mondo propagandata dal sistema mediatico e la realtà degli uomini “in carne ed ossa”; “rossa” perché intende, senza falsi pudori, rimettere al centro della riflessione quei pensatori della sinistra che nel passato (ma ancora con grande modernità) hanno condotto una critica serrata e sistematica al sistema di produzione. Primo fra tutti Karl Marx, la cui opera costituisce un'autentica “rivoluzione copernicana” nella storia del pensiero, ribaltando il rapporto tra ideale e materiale e assegnando la preminenza a quest'ultimo e mostrando l'interesse economico di coloro che dichiaravano di agire in nome di un qualche astratto ideale falsamente universale. Come quello della Chiesa che dietro la sua ipocrita e regressiva “difesa della sacralità della vita” nasconde, nella realtà dei fatti, interessi ben più terreni e materiali.

Noi, non ci lasciamo irretire dalla subalternità di quei politicanti cosiddetti “riformisti” che invece di contrapporre una radicale e chiara alternativa al modello delle destre, si ostinano in un fallimentare moderatismo. La teoria che ogni forza politica di tendenza progressiva debba conquistare consenso tra una parte dei conservatori (dimenticando la propria “base” progressista) e per farlo debba essere sempre più accomodante verso le loro idee è stata sconfitta dalle “dure repliche della storia”, e dall'intransigenza di una destra che si propone senza remore, abbandonando ogni profilo, anche solo di facciata, moderato.

Vogliamo quindi riproporre la migliore tradizione della sinistra, quella che è stata malauguratamente dimenticata da un opportunismo elettoralista sconfitto sul suo stesso terreno, quello del consenso.

Vogliamo ripartire dalla critica al capitalismo, tanto più attuale quanto la crisi internazionale ha mostrato gli effetti deleteri del “libero” mercato, dell'assenza di intervento pubblico in economia, della privatizzazione di settori fondamentali, della destrutturazione dello stato sociale, della devastazione dell'ambiente in nome del profitto e dell'aggressione ai diritti dei lavoratori.

Vogliamo esaminare, a livello internazionale, le opportunità che si presentano per una rinascita di una sinistra vera, “radicale” senza ambiguità, e delle alleanze di questa con le forze progressiste, in quelle parti del mondo in cui si è già affermata e lavora per una trasformazione della società, come in America latina, e laddove tenta, seppur faticosamente, di ricostruire il proprio modello, come in Europa.

Vogliamo riproporre, a livello nazionale, un antiberlusconismo “senza se e senza ma”, unione di tutte le forze progressive in opposizione alla cultura e all'interesse incarnati nel nuovo “bonapartismo”, un'alleanza sul modello di quella antifascista e democratica nata dalla lotta partigiana.

Vogliamo riaffermare i principi dell'antifascismo e della democrazia e i valori dettati dalla Costituzione, di fronte alla nuova e temibile ondata di revisionismo storico che attraversa l'Italia, e che in nome di una falsa “riconciliazione” pretende di parificare coloro che combatterono per la democrazia e coloro che tentarono di seppellirla.

Vogliamo opporre l'anticlericalismo quale risposta all'invadenza clericale e all'influenza funesta della lobby vaticana all'interno della politica italiana, fondamentale per affermare la laicità dello stato. Di contro alle pretese e ai privilegi delle gerarchie ecclesiastiche.

Vogliamo sostenere un internazionalismo convinto quale argine all'intolleranza e alla xenofobia che sta rialzando la testa, in Italia e in Europa, e quindi l'uguaglianza di tutte le razze e di tutte le culture e la loro pari dignità, il diritto di ogni uomo, senza alcuna distinzione nazionalistica, ad emigrare e a ricercare condizioni di vita favorevoli.

Vogliamo ribadire infine la centralità del lavoro quale luogo di ricerca e di realizzazione di tutte ciò: dell'opposizione alla nuova Restaurazione, fascista e clericale, della ricostruzione della sinistra, e dell'unione delle classi oppresse di tutto il mondo sotto il quanto mai attuale appello “i lavoratori non hanno patria”.