venerdì 27 novembre 2009

Presidente, si svegli!


Non so a voi, ma a me certe volte fa venire i nervi. Sto parlando del nostro Presidente. No, non lui! Non il Grande Puttaniere, non il boss di Arcore, non il Delinquente del Consiglio. A lui ormai ci sono abituato e iper-vaccinato. Non ci faccio neanche più caso quando sento una della sue buffonate, una delle sue cialtronate che tuttavia trovano sempre qualche pesce che abbocchi. Mi riferisco, invece, al Presidente della Repubblica. A Giorgio Napolitano. E ciò è tanto più grave perché mentre il Capo del Governo è espressione di una maggioranza, e quindi di una parte del paese, il Capo dello Stato è, o dovrebbe essere, il Presidente i tutti gli italiani.
Ebbene questo Presidente sembra vivere in un mondo tutto suo. Un mondo tutto tranquillo e pacato, nonostante intorno si scateni il putiferio. Mi fa pensare a un uomo che se ne sta tranquillo dentro casa davanti al focolare mentre fuori un alluvione distrugge case e abitanti.
Non so in quale epoca crede di vivere Napolitano. Forse all'epoca del neonato Regno d'Italia, quando i deputati italiani, provenienti tutti da famiglie altolocate (non che oggi questo non avvenga!) gentiluomini in frac, nel momento in cui dovevano fare un'obiezione dicevano “Mi scusi, signore, mi permetta di dissentire”.
Non lo so. Ma sicuramente non vive all'epoca del regime berlusconiano,in cui un governo chiaramente autoritario che ottiene il consenso concentrando i mezzi di comunicazione nelle mani di un solo uomo, o di un solo gruppo di interesse, sta mandando in pensione quel che rimane della democrazia e della repubblica parlamentare, che Napolitano dovrebbe difendere.
Forse il nostro gentiluomo sabaudo (anche se in realtà è campano) non si rende ben conto di cosa stia facendo questo governo. Sarebbe utile che qualcuno dei suoi collaboratori lo illumini nel merito. Questo governo ha come capo un uomo indagato in più processi, un corruttore accertato (come ha dimostrato il processo Mills) un probabile collaboratore della mafia, un amico di due mafiosi, Mangano e Dell'Utri, il primo ha vissuto a casa sua, il secondo è uno dei suoi più fedeli collaboratori e cofondatore del suo partito. Questo governo sta distruggendo la magistratura a seguito di tutti gli interventi orientati a fermare i processi del suo capo, garantendo così l'impunità a criminali di tutti i tipi; ha favorito l'evasione fiscale e l'impunità per gli evasori, sta distruggendo l'istruzione, tagliando fondi alla scuola pubblica e avviando la privatizzazione di fatto dell'università; sta tagliando risorse alla polizia, nel mentre si istituiscono le ronde, delle cui convinzioni politiche e ideologiche è inutile dire, ha emanato leggi razziste, come quella sul reato di clandestinità, che discriminano tra italiani e stranieri,sta aggredendo il lavoro, favorendo sempre più la precarietà e sempre meno la sicurezza sul posto di lavoro, garantendo l'impunità agli imprenditori che non rispettano le norme. Ha fatto carta straccia della Costituzione che ha detto ripetutamente di voler modificare per realizzare una repubblica presidenziale, con più potere all'esecutivo; non ha rispettato un referendum popolare che ha rifiutato il nucleare, ha privatizzato l'acqua.
Di fronte a una situazione del genere ci si aspetterebbe che un'istituzione come quella della Presidenza della Repubblica (che in passato è stata presieduta da figure altamente rappresentative e stimate come Sandro Pertini e Oscar Luigi Scalfaro) si erga a difendere il dettato costituzionale e a garantire il rispetto delle istituzioni, sostenere l'uguaglianza di tutti, senza distinzione di sesso, razza o religione, di fronte alla legge.
E invece cosa accade? Accade che Napolitano in questa catastrofe non trovi nulla di meglio da fare che richiamare tutti alla “compostezza”, ad “abbassare i toni” come se il problema dell'Italia fosse qualche intemperanza del linguaggio, un problema di forma più che di sostanza. Per tornare all'esempio precedente è come se quell'uomo comodamente seduto in poltrona a casa sua, non solo si dimentichi dell'alluvione che sta distruggendo la città, ma si lamenti pure per le grida di qualche suo concittadino che disperatamente chiede aiuto mentre sta per essere travolto.
Sembra quasi che il Presidente della Camera, terza carica dello stato, dia l'impressione di essersi assunto l'onere di “supplire” a questa mancanza istituzionale di Napolitano.
È davvero surreale allora, con un Presidente del genere, assistere alle chiacchiere di chi lo accusa di essere “di sinistra” come se egli avesse favorito l'opposizione. Uno Capo dello Stato che mette la firma su tutte le leggi e decreti, anche quelli più abietti, anche quelli più palesemente incostituzionali, uno capo dello Stato che firma la legge razziale del reato di clandestinità, lo “scudo fiscale” che permette il riciclaggio di denaro, il Lodo Alfano che viola due articoli della Costituzione e tante e tante altre amenità, è una manna per tutti i governi, soprattutto per un governo come quello attuale che mostra una totale mancanza di riguardo istituzionale. La bizzarra motivazione addotta da Napolitano (e smentita dal suo predecessore Ciampi che non certo era uno “intransigente”) è che, se egli non avesse firmato, le Camere gli avrebbero rimandato indietro il testo identico ed egli sarebbe stato costretto a firmare. Che è come dire: “io qui non servo a niente”. A parte il fatto che se la pensasse così avrebbe fatto meglio a non accettare l'incarico, ma è un ragionamento assurdo. Non si capisce cosa costa a Napolitano negare una firma quando è in suo potere negarla. Nel frattempo possono accadere tante cose. Può darsi che alcuni parlamentari meno entusiasti della maggioranza si rifiutino di rivotarla (come accadde con lo scudo fiscale che passò solo grazie all'assenza di esponenti dell'opposizione) ma anche se gliela rimandassero intanto lui avrebbe fatto il suo dovere, avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere. Invece no. Per la prima volta da chissà quanto tempo abbiamo un Capo dello Stato che firma qualsiasi cosa perché secondo lui è inutile opporsi. Così se qualcuno proponesse di trasformare l'Italia in una monarchia assoluta con il necessario iter legislativo e costituzionale, Napolitano non avrebbe nulla da eccepire, perché tanto “gliela rimandano indietro” come rispose una volta a un cittadino che giustamente lo aveva sollecitato a compiere il suo dovere.
Stamane l'ultima delle perle del gentleman della Campania: “è indispensabile, è il suo ammonimento, «che quanti appartengono alle istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione si attengano scrupolosamente allo svolgimento di tale funzione». Insomma, nessuna invasione di campo” come si legge sulla Stampa. Ora chi ha la pazienza di seguirmi su questo blog di controinformazione sa che io sono tutt'altro che tenero con la magistratura, come dimostra il post precedente. Tuttavia il richiamo appare quanto mai inopportuno soprattutto se considerato alla luce delle inevitabili strumentalizzazioni politiche. La maggioranza potrà urlare di gioia vedendo confermate le sue bizzarre tesi secondo cui Berlusconi sarebbe perseguitato dalla magistratura oppure sul fatto che i giudici non possano (a loro dire) rilasciare dichiarazioni alla stampa e in televisione o esprimere opinioni sulle leggi. L'appello a “non travalicare” sarà ovviamente usato da una certa parte politica per fomentare i propri scopi di delegittimazione della magistratura. Non solo, Napolitano va oltre: "E spetta al Parlamento - conclude Napolitano - esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia".
Ora sarà che a me ultimamente a sentir parlare di “riforma” viene l'orticaria, ma in questo contesto parlare di riforma che equilibri il rapporto tra politica e giustizia vuol dire una cosa sola: dare al potere politico un qualche controllo sull'operato del potere giudiziario. Può darsi che non sia l'intenzione di Napolitano, non è questo il punto. Ma certo dire a una maggioranza e a un governo come questi che si deve fare una riforma del genere per me è come andare direttamente nella tana del leone per farsi sbranare. Per ritornare al solito esempio è come se durante una catastrofe naturale ci si preoccupasse di far rispettare il traffico stradale invece che soccorrere la popolazione in difficoltà. È chiaro che regolare il traffico cittadino non è sbagliato di per sé, ma farlo nel mentre si rischia di venire travolti dalla furia degli elementi è da folli.
Ma non finisce qui: “Va ribadito - aggiunge il presidente - che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare”.
In un paese normale questo sarebbe anche giusto. Ma in un paese come l'Italia significa invitare a nozze Berlusconi, garantirgli quasi che il suo governo durerà fino alla fine della legislatura. Che è legittimato a governare. Napolitano dimentica che questo è un governo presieduto, lo ripetiamo, da un uomo plurindagato, che la magistratura ha identificato (anche se non nel suo processo) come un corruttore. Ora si richiede al Capo di un Governo la massima garanzia circa la propria persona. È tanto assurdo allora pensare che uno come Berlusconi dovrebbe dimettersi? Certo, non mi aspetto che Napolitano, che non è mai stato un “cuor di leone” come direbbe il Manzoni, inviti velatamente e tra le righe il Presidente del Consiglio alle dimissioni. Ma quanto meno potrebbe evitare di legittimarlo nella sua posizione, di dire che non c'è nulla di sbagliato nel fatto che egli ricopra quest'incarico. Potrebbe, almeno, in questi casi, tacere. Invece no. Egli invita il lupo a sbranare l'agnellino, anziché spronare quest'ultimo a scappare.
Per questo comportamento del Presidente della Repubblica non riesco a trovare altra giustificazione che la sua ingenuità. Perché altrimenti dovrei pensare che la sua non è ingenuità, ma qualcos'altro. E non voglio neanche, almeno per il momento, prendere in considerazione questa ipotesi.


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domenica 22 novembre 2009

Terrorismo di stato

Se siete tra quelli che credono che i magistrati hanno sempre ragione e che sono tutti degli eroi senza macchia pronti a immolarsi per la patria, state per apprendere una brutta notizia che potrebbe mettere in discussione le vostre certezze. Se pensate che la magistratura sia l'ultimo bastione della democrazia in Italia, il mio scopo è appunto quello di farvi ricredere.
In questi giorni c'è stato un grande clamore su giornali e telegiornali intorno al caso Battisti, il presunto (a me, eretico e comunista, piace ancora usare certe aggettivazioni) terrorista per la cui estradizione i parlamentari e il governo italiano, maggioranza e opposizione (si fa per dire), con la solita e solida complicità della Presidenza della Repubblica, brigano e si affannano, con esagitato attivismo, un attivismo che si risveglia sempre quando si tratta di difendere interessi corporativi e/o speculativi e che dorme placidamente quando invece ci sono in gioco gli interessi generali e popolari.
Così tutti uniti contro il Brasile brutto e cattivo, pronto a concedere asilo a un “terrorista” e per di più comunista. Perché finché le due cose sono separate, pazienza, ma quando compaiono insieme allora la sete di giustizia si risveglia miracolosamente tra politici e giornalisti. Il Brasile brutto e cattivo ha avuto l'ardire di proteggere uno che è stato condannato dalla “Giustizia” italiana in contumacia. Queste cose non si fanno. Non si mette in dubbio la correttezza del modus operandi di certa magistratura, soprattutto negli anni in cui, '70 e '80, le pressioni per fare tabula rasa di terroristi anche a costo di immolare qualche articolo costituzionale, erano all'ordine del giorno.
È ben strano e singolare in un paese come l'Italia tutto questo agitarsi di scimitarre e di improvvisi risvegli di coscienze da lungo tempo sopite. Forse giova ricordare che l'Italia assetata di giustizia difese il banchiere brasiliano Salvatore Cacciola condannato a tredici anni dalla magistratura brasiliana, rifiutandosi di concedere l'estradizione al Brasile. È vero, spesso i paesi di tutto il mondo sono molto più severi con i propri criminali che con quelli degli altri. Ma allora come spiegare le decine di terroristi neri scampati alla condanna e di cui l'Italia sembra essersi presto dimenticata e molti dei quali si trovano tutt'ora a piede libero? Come Roberto Fiore fondatore del partito fascista Forza Nuova, condannato per strage, rifugiatosi in Inghilterra per sfuggire alla pena, e rientrato dopo la prescrizione in Italia, dove esercita la sua attività di “politico” come se nulla fosse. Per la Cronaca l'Inghilterra rifiutò l'estradizione alla magistratura italiana cui negò la collaborazione, eppure non si videro allora i paladini delle “vittime del terrorismo” (espressione di cui amano spesso riempirsi la bocca) insorgere o protestare, anche se si trattava di una condanna ben più grave di quella di Battisti, cioè la strage.
È curioso notare come tutti coloro che sbraitano contro le “toghe rosse” in nome di un “garantismo” liberamente interpretato, diventino improvvisamente dei forcaioli e pretendano che dei paesi democratici, o comunque più democratici di noi, come Francia e Brasile, si accontentino della giustizia sommaria che ha decretato sulla base di prove confutabilissime la colpevolezza di Battisti.
A ben vedere tutte queste prove, che non compaiono mai sui giornali scandalizzati, e anche un po' scandalistici, che si occupano della vicenda, si riducono a una sola: la testimonianza del pentito Pietro Mutti, ex terrorista e fondatore dei Proletari Armati per il Comunismo (PAC) lo stesso gruppo in cui militò Battisti. Testimonianze assai contraddittorie, difficilmente assemblabili in un quadro coerente. Ma fermiamoci un attimo e facciamo un passo indietro.
Siamo negli anni in cui gli attentati terroristici si susseguono, terrorismo rosso, quello delle Brigate Rosse ma non solo, e terrorismo nero, quello di Piazza Fontana ma non solo, quello della strategia della tensione ma non solo.
In questi anni, c'è una parte considerevole della politica e una parte considerevole della magistratura, che spinge per una maggiore “durezza” nei confronti dei terroristi, veri o presunti, anche a costo di fare qualche delega allo stato di diritto. Così, a cavallo degli anni '70 e '80, vengono approvate quelle “leggi speciali” per contrastare il terrorismo. Queste leggi prevedevano (e prevedono tutt'ora) ad esempio, un uso molto disinvolto e prolungato della carcerazione preventiva, l'internamento nelle “carceri speciali” senza le dovute garanzie, le perquisizioni senza la necessaria autorizzazione del magistrato, in contrasto con la Costituzione. Sia detto per inciso tra queste leggi vi è anche quella del divieto di andare in giro col volto coperto, cui i laici a corrente alternata si appellano per giustificare la loro avversione al burqua islamico. C'è anche la temibile “legge Cossiga”, che autorizza la polizia a trattenere per quattro giorni l'arrestato senza che questi possa ricevere avvocati o familiari. Una legge che permise di consumare violenze e torture ai danni di numerosi indagati e di estorcere confessioni.
È in questo contesto giuridico che si svolge il processo a Cesare Battisti, accusato di essere complice dell'omicidio di Pierluigi Torregiani e di Lino Sabbadin. I giornali hanno parlato a sproposito di esecuzione dell'omicidio Torregiani, mentre è sicuro che non fu Battisti a ucciderlo. Tutto questo in un contorno assai romanzesco in cui Torregian viene santificato come una sorta di eroe e Battisti descritto come un mostro impietoso. Torregiani fu ucciso per la sua “mania” di farsi giustizia dà sé, sparando ai rapinatori del suo ristorante e causando in questo modo la morte di un cliente innocente. Ciò ovviamente non ne giustifica l'assassinio, ma non lo rende nemmeno un santo.
Battisti fu accusato di essere l'esecutore materiale di altri due delitti: gli omicidi di Campagna e Santoro.
Dicevamo del clima particolare di quegli anni e della normativa securitaria non molto attenta allo stato d diritto. Fu proprio per la necessità di portare avanti, con ogni mezzo, la guerra al terrorismo e ai terroristi che nacquero i “pentiti”. I pentiti erano dei terroristi che se ripudiavano la lotta armata e offrivano i nomi di altri terroristi ottenevano sconti di pena. La logica del “pentitismo” è stata più volte rimessa in discussione, soprattutto se non affiancata da altre prove. Soprattutto perché veniva previsto che la riduzione della pena fosse direttamente proporzionale al numero delle delazioni; più complici denunci, meno resti in galera. Ciò instaurava un circolo vizioso che portava i pentiti a denunciare anche coloro che erano innocenti o delle cui azioni non avevano diretto riscontro. Nella vicenda in questione ad esempio c'è il caso di Sisino Bitti o di Angelo Franco, entrambi erroneamente condannati.
Il processo si svolge in un clima fortemente intimidatorio. Innanzitutto numerosi imputati denunciarono di aver subito violenze e torture per essere indotti a confessare falsità. In secondo luogo le testimonianze. Venne utilizzata la parola di malati psichci. In terzo luogo, delle deduzioni assai libere: siccome Mutti aveva detto che Battisti aveva preso parte al delitto Sabbadin e il delitto Torregiani appariva ispirato a una identica strategia, Battisti doveva essere colpevole anche per quanto riguardava l'omicidio di Torregiani. Un vero e proprio volo pindarico giudiziario. In quarto luogo la sentenza a Battisti a dodici anni e mezzo fu commutata nell'ergastolo dalla Corte d'Appello, una pena decisamente sproporzionata, considerato che non ci sono prove circa il coinvolgimento diretto dell'imputato.
In quinto luogo il testimone chiave, Pietro Mutti, che ha tutto l'interesse a mentire (per ottenere sconti di pena via via crescenti che infatti ha ottenuto) e sul quale c'è una sentenza del '92 della Cassazione che recita: “Pietro Mutti utilizza l’arma della menzogna anche a proprio favore, come quando nega di avere partecipato, con l’impiego di armi da fuoco, al ferimento di Rossanigo o all’omicidio Santoro; per il quale era d’altra parte stato denunciato dalla DIGOS di Milano e dai CC di Udine. Ecco perché le sue confessioni non possono essere considerate spontanee”.
Un testimone, dunque, molto poco credibile, e al quale tuttavia i magistrati credono ciecamente.
Alla luce di quanto detto il cattivo governo brasiliano appare un po' meno cattivo di quanto paventato dalla stampa. Anche perché il processo Battisti si è svolto in contumacia. E in Italia, contrariamente a quello che accade in altri paesi, quando viene arrestato il fuggitivo il processo non deve essere ricelebrato. In violazione al secolare principio dell'habeas corpus.
Il punto non è se Battisti sia innocente o colpevole. Le prove della sua colpevolezza sono molto labili, ma anche se fosse colpevole resta il fatto che il processo si è svolto in modo del tutto irregolare, contravvenendo ai trattati internazionali e alla Carta Costituzionale. In una cornice legislativa fortemente repressiva. È chiaro che non si può rischiare che la Francia prima e il Brasile poi neghino l'estradizione. Sarebbe come ammettere che quel processo era irregolare. Significa riaprire ferite mai cicatrizzate, mettere in discussione la “rispettabilità” di certi personaggi della magistratura e della politica. Come i PM Armando Spataro e Luciano Violante che asserivano la teoria della “durezza” contro i terroristi. Quest'ultimo, come tutti sanno, fu esponente prima dei Ds e ora del Pd. Occorre quindi gridare allo scandalo per evitare di fare emergere certe cose che è meglio tenere nascoste. Allora vigeva la dittatura del consenso sulla lotta al terrorismo. Parlamentari di maggioranza e dell'opposizione collaboravano, collaborazione che poi ebbe come effetto l'approvazione delle “leggi speciali”.
Sappiamo quante vittime, questo modo di procedere, difeso da politici e magistrati, abbia causato. Ce li ricordiamo Valpreda e Pinelli? Ce li ricordiamo Adriano Sofri e Silvia Baraldini?
Si sente da molte parti spesso parlare degli “anni di piombo” con una banalità e un conformismo spesso sconfortanti. Si dice che bisogna far chiarezza su un periodo ancora oscuro della nostra storia. Ma far chiarezza significa accertare la responsabilità di tutti. Anche di chi si ammantava dietro l'aura del soldato dell'antiterrorismo. Anche di chi, in nome della lotta al terrorismo, il terrorismo lo esercitava lui stesso. Con metodi più scaltri e raffinati delle bombe o dei mitra. Questi metodi si chiamano diritto, si chiamano leggi, si chiamano interrogatori, si chiamano processi.
Comprendere a fondo quegli anni significa comprendere come mai a quella durezza da più parti invocata si sostituì talvolta una “morbidezza” assai sospetta; per quale ragione la magistratura, e la politica, non adottarono sempre la stessa intransigenza? Come mai, ad esempio tutte le maggiori inchieste che coinvolgevano terroristi neri si sono concluse in un nulla di fatto. Come mai non si parla mai dei legami tra i terroristi fascisti e il MSI? Perché uno come Battisti ha ricevuto condanne all'ergastolo per delitti che forse non ha mai commesso e uno come Stefano delle Chiaie, colpevole della strage di Piazza Fontana e di Bologna, anello di congiunzione tra MSI e gruppi eversivi neofascisti, è tutt'ora a piede libero e impunito?
Cosa vorrebbe dire fare luce veramente su quelle vicende? Probabilmente mettere in difficoltà alcuni degli attuali parlamentari o ministri. Alcuni di loro erano membri missini. Cosa sanno loro dei rapporti tra il partito di Almirante e gli attentatori stragisti? Cosa sanno gli allora magistrati di sinistra e oggi parlamentari dell'opposizione circa i metodi assai discutibili che certa magistratura italiana usava ed usa ancora?
Comprendere il terrorismo, rosso e nero, ma anche giudiziario e politico, va al di là delle patetiche commemorazioni delle vittime o delle ipocrite invettive contro i terroristi. Significa indagare sulle complicità delle istituzioni con coloro che dicevano di combattere. Significa comprendere come la distinzione tra buoni (magistrati, istituzioni) e cattivi (terroristi, gruppi di estrema sinistra) è fittizia. Significa comprendere le “stragi di stato”. Significa comprendere il teorema della “contiguità morale” che taluni istituivano, come se l'appartenenza ideologica o anche la semplice amicizia con degli indagati potesse essere la prova di una colpevolezza “preventiva”, prima ancora che il reato fosse consumato.
Significa comprendere la complessità di un periodo che non può essere riconducibile a semplici schemi, probabilmente di impatto mediatico, ma scarsamente rispondenti alla necessità di accertamento della verità.


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mercoledì 11 novembre 2009

Violenza squadrista a Roma

Era notte inoltrata quando una squadra di guardie armate che non sarebbe sbagliato definire fascista ha fatto irruzione all'Eutelia di Roma, dove gli operai occupavano la fabbrica per protestare contro 1200 licenziamenti.
I lavoratori tentavano di difendersi attraverso una pacifica forma di lotta per mantenere il loro posto di lavoro minacciato dalla spregiudicata logica capitalista del profitto quando quindici uomini, evidentemente ben pagati, hanno scardinato i cancelli e sono entrati con torce e spranghe minacciandoli.
I componenti della squadraccia nera, mandata da Samuele Landi, proprietario dell'azienda, si sono spacciati per poliziotti e sono stati fermati dall'arrivo dei carabinieri Un caso gravissimo di aggressione armata su cui la magistratura non può non intervenire. Sembra di essere tornati indietro di parecchi anni, quando lo squadrismo guidato da Mussolini imperversava in Italia, attaccando gli operai e i contadini che protestavano e che cercavano di rivendicare i loro diritti, col beneplacito dell'allora governo liberale, nonché dei padroni e dei proprietari che accettavano di buon grado di chiudere un occhio. Sappiamo tutti come poi è andata a finire.
Questi episodi non possono essere tollerati. Non si può rischiare una deriva autoritaria. Ci sono stati già altri momenti simili a questo ai danni di immigrati, omosessuali o di militanti di sinistra. Non sempre (specialmente quando le vittime sono questi ultimi) i media, i politici e il governo danno la dovuta attenzione al fenomeno. La strategia è sempre la stessa, aggredire i più deboli e quindi operai, immigrati o persone di diverso orientamento sessuale, sopratutto quando lottano per difendere ciò a cui hanno diritto.
La violenza, poteva costare un prezzo ben più grave ai lavoratori se non ci fosse stata una telecamera a documentare l'accaduto. Sarebbe un grande errore sottovalutare questi episodi. Ostinarsi a dire che il razzismo e l'intolleranza in Italia non esistono, e che non ci sono i segni di una chiara involuzione della società verso forme di dominio autoritarie non farebbe che aggravare il fenomeno.
Il fatto avvenuto a Roma contro gli operai è solo l'ultimo di una lunga serie. E testimonia la nuova tendenza fortemente repressiva del capitalismo.
I sindacati e la sinistra devono essere vicini ai lavoratori soprattutto in un momento in cui la lotta è più utile che mai, per evitare che eventi del genere si ripetano.


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sabato 7 novembre 2009

Ottobre rosso


Oggi ricorrono i 92 anni dalla rivoluzione bolscevica. Una data spesso dimenticata ormai, anche a sinistra, nell'ondata di revisionismo storico che vuole infangare la memoria di eventi come la Resistenza e il Sessantotto.
Sulla rivoluzione d'ottobre grava una pesante aria di accuse a volte false, a volte parzialmente vere ma decontestualizzate, come su tutto ciò che appartiene alla tradizione comunista.
In realtà quello fu uno dei momenti più fortemente emancipativi delle masse, degno di essere ricordato accanto alla Rivoluzione francese, alla Comune di Parigi e alla lotta contro il nazi-fascismo.
La Russia zarista d'inizio secolo, al contrario degli altri paesi europei dell'epoca, non aveva ancora conosciuto una rivoluzione borghese e un'organizzazione capitalistica della società, non aveva nemmeno visto quel pallido riformismo in cui credettero molti liberali russi all'epoca di Alessandro II. Nonostante ufficialmente la servitù della gleba fosse stata abolita nel 1861 nella realtà le cose andavano molto diversamente e la popolazione delle campagne viveva in una condizione di schiavitù effettiva.
Tuttavia la società russa era tutt'altro che immobile. Fermenti rivoluzionari attraversavano il paese già dal XIX secolo; c'erano gli anarchici, i nichilisti, i socialisti. E più tardi anche i comunisti.
La situazione di lunga sudditanza in cui versavano le masse diede così presto i suoi frutti in un'epoca di grandi trasformazioni sociali in tutto il mondo che non poteva non attraversare anche la Russia. Così nel 1905 ci fu una prima ondata di scioperi e proteste a seguito del quale lo zar fu costretto a concedere poteri alla Duma, il parlamento. Tuttavia lo zar si rimangiò la parola e questo causò ulteriore malcontento. La Prima Guerra Mondiale contribuì ad inasprire le condizioni del proletariato russo e la situazione divenne presto insostenibile.
Il 23 febbraio 1917 i lavoratori proclamarono lo sciopero generale. L'esercito ricevette l'ordine di reprimere nel sangue la rivolta. Ma nei giorni seguenti reparti dell'esercito si unirono agli operai. Il 27 febbraio venne occupata la Duma dagli insorti. Il 2 marzo Nicola II venne esautorato e il 15 marzo i ribelli formarono un governo provvisorio. Al governo parteciparono i “cadetti” cioè il partito dei liberali, i socialisti rivoluzionari e i menscevichi.
Il governo provvisorio guidato dal socialrivoluzionario Kerenskij non attuò le riforme promesse, il popolo continuava a soffrire la povertà, la libertà di parola e di riunione venne di fatto più volte violata con la repressione, l'esercito soffocò con la forza gli scioperi e le proteste, ma soprattutto il governo commise il tragico errore di continuare la guerra affamando così sempre più le masse.
La crisi si aggravò ulteriormente quando il generale Kornilov marciò contro il governo provvisorio con lo scopo di ripristinare il vecchio regime. Kerenskij allora, che nel frattempo perdeva l'appoggio anche all'interno del suo partito, fu costretto a chiedere l'aiuto dei bolscevichi guidati da Vladimir Ilic Lenin e ad armarli. Nacque così la Guardia Rossa. Decisione che sarebbe stata fatale per Kerenskij. Dopo che Kornilov fu sconfitto, infatti i bolscevichi avevano ormai la maggioranza nei soviet, l'organismo che rappresentava i lavoratori, appoggiati anche dalla sinistra socialrivoluzionaria. Così, nella notte tra il 6 e il 7 novembre (24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano) i bolscevichi guidarono la rivolta popolare e infine occuparono il Palazzo d'Inverno di Pietrogrado, un tempo la residenza degli zar. Deposto il governo provvisorio venne deciso il trasferimento del potere ai soviet seguendo il motto bolscevico “tutto il potere ai soviet”. Nasceva così la Repubblica Socialista Sovietica Russa.
La rivoluzione bolscevica fu il primo tentativo riuscito (e forze l'unico se si escludono le brevi esperienze della Spagna del 1936 o dei primi anni della Cuba rivoluzionaria) di realizzare la teoria marxista.
Molti assunti della tradizionale analisi marxiana, fatta propria dalla socialdemocrazia, vennero messi in discussione da Lenin. In particolare il presupposto secondo cui non ci sarebbe potuta essere una rivoluzione proletaria senza uno sviluppo capitalistico della produzione, condizione mancante nella Russia dell'epoca. Inoltre secondo Lenin gli operai non avrebbero mai potuto maturare da soli una coscienza rivoluzionaria, essi potevano al massimo raggiungerne una “tradunionistica”. Così si renderebbe necessario che un partito guidi le masse verso la rivoluzione.
La strada intrapresa grazie alla teoria leninista e al governo bolscevico venne presto abbandonata dopo la presa del potere di Stalin. Sarebbe sbagliato vedere quest'ultimo in continuità con Lenin.
Innanzitutto la politica di Lenin fu tutt'altro che estremista e avventata. Egli avviò importanti riforme tra cui la NEP, la Nuova Politica Economica, che consisteva in una parziale liberalizzazione del mercato, provvedimento necessario data la particolare situazione nazionale. Lenin sapeva benissimo che non era possibile procedere immediatamente verso collettivizzazioni a tappeto le quali sarebbero dovute succedere a un graduale processo di trasformazione. Stalin, invece, appena giunto al potere, avviò la collettivizzazione forzata delle terre e la deportazione dei contadini renitenti.
Inoltre era ben chiaro a Lenin che la rivoluzione non avrebbe mai potuto essere circoscritta al territorio nazionale ma avrebbe dovuto estendersi al mondo intero. Egli non dimenticò mai l'internazionalismo che da sempre aveva ispirato la teoria e l'azione dei comunisti di tutto il mondo. In epoca staliniana valse invece il principio del “socialismo in un solo paese” con cui si rinunciava di fatto a ogni tentativo di estendere la rivoluzione ad altri paesi.
Ma la condanna della storia più grave riguarda naturalmente le “Purghe” attraverso le quali vennero deportati e uccisi tutti coloro che fossero in disaccordo o anche solo nel sospetto di esserlo con la deriva autoritaria del regime pseudo-socialista staliniano. Tra questi anche importanti comunisti che ebbero parte attiva nella rivoluzione tra cui Kamenev, Zinov'ev, Trotsky e Bucharin. Le purghe proseguite durante tutto il periodo staliniano sarebbero costate caro durante l'attacco nazista in cui l'esercito si vide decimato e in forte difficoltà. Inoltre Stalin avviò un feroce sfruttamento dei lavoratori allo scopo di alimentare la crescita industriale. Questo rende l'URSS di Stalin a tutti gli effetti uno stato capitalista che perseguì metodi di duro sfruttamento del proletariato per aumentare il profitto. La storia ci ha dimostrato che Lenin aveva purtroppo visto giusto quando aveva raccomandato l'allontanamento di Stalin dal partito.
È perciò assai ingiusto attribuire i crimini di Stalin al comunismo in quanto tale, come se essi fossero causati da teorici e militanti che non vi presero mai parte e che anzi fecero di tutto per contrastarle. Si può invece ravvisare nel dispotismo staliniano un residuo delle vecchie forme autocratiche di gestione del potere, che in Russia non sono scomparse del tutto nemmeno oggi, unitamente a uno sfruttamento capitalistico dei lavoratori, un ibrido micidiale. Il motto dei bolscevichi “tutto il potere ai soviet” nei fatti non fu mai realizzato e questo anche a causa di Stalin che fermò quel processo emancipativo del proletariato russo avviato nel 1917.
Ma cosa ci insegna oggi, a 92 anni di distanza, la rivoluzione d'ottobre? Innanzitutto il fatto che è soltanto la classe dei lavoratori a poter rappresentare le speranze di libertà per il futuro. Ogni governo che non sia con i lavoratori, per i lavoratori e dei lavoratori (per parafrasare una celebre frase sulla democrazia) non potrà mai liberare questi ultimi. Perciò qualsiasi “tatticismo” e “opportunismo” che mira a ottenere il potere senza finalizzarlo alla liberazione dallo sfruttamento di questo sistema capitalistico è destinato non solo a fallire, ma a ritorcersi contro chi ne ha fatto uso come fu per Kerenskij e per i menscevichi. Tradire le speranze del proprio popolo per restare al potere con qualche compromesso sempre più a ribasso è una tattica fallimentare per chiunque voglia rappresentare la classe operaia.
Ogni riferimento a persone o partiti attualmente esistenti è puramente casuale.

mercoledì 4 novembre 2009

Libera scuola in libero stato


Se c'è un'istituzione in grado di far rispettare la laicità dello Stato italiano, quella non è lo Stato italiano. Con una sentenza storica, la Corte europea ha sancito l'inammissibilità dell'esposizione dei crocifissi, quindi dei simboli religiosi, nelle scuole pubbliche.
Il caso è stato sollevato da una madre finlandese non cattolica cui la Corte ha dato ragione. Una sentenza pienamente legittima. Primo perché non c'è nessuna legge italiana che imponga (ci mancherebbe) l'esposizione di simboli religiosi in luogo pubblico, tantomeno di un solo simbolo religioso a scapito di tutti gli altri e a scapito di chi non ha religione alcuna. Secondo perché contrasta con un basilare principio che stabilisce l'uguaglianza di tutti i credi e di tutte le fedi come sancito dallo stesso articolo 8 della Costituzione. Terzo perché lo Stato democratico è laico, quindi non ha nessuna preferenza religiosa, ragion per cui non può esporre simboli religiosi sui muri dei suoi edifici. Quarto, perché, come dice la sentenza, l'esposizione del crocifisso nelle scuole viola la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni. L'esposizione del crocifisso in un luogo dove si educa indirizza le credenze degli allievi verso la religione cristiana. Se l'educazione è pubblica questo non è giusto. Ciò dovrebbe anche farci ripensare all'insegnamento della religione che, ricordiamolo, non è di tutte le religioni, ma di una sola, precisamente quella cattolica. Uno studente buddista non ha la possibilità di imparare a scuola la propria religione. Un studente cattolico sì. Mettetela come vi pare, ma questa è oggettivamente una discriminazione.
Dovrebbe essere un principio elementare. In uno stato laico la religione appartiene alla sfera privata e deve restar fuori da quella pubblica. Lo stato laico è equidistante da tutte le religioni. Bisogna garantire a tutti gli stessi diritti, anche a coloro che non credono in nessuna religione. Mi pare una tautologia, quella di dire, una volta accettato questo assunto, che, quindi, non si possono esporre simboli religiosi in luoghi pubblici. Se si accetta il principio di laicità dello stato, bisogna anche accettare la laicità delle istituzioni dello stato. Se invece si volesse marchiare una di queste istituzioni con un simbolo religioso allora non si garantirebbe il rispetto della laicità. Tertium non datur.
Eppure i nostri politici sembrano non comprendere questa elementare deduzione logica. Tutti i parlamentari, ma proprio tutti, dalla Lega all'Italia dei Valori, salvo rare eccezioni, si sono detti contrari alla sentenza europea. Tutti compatti a difendere Santa Madre Chiesa, tutti uniti per affermare la triade cara ai reazionari dio, patria, famiglia. Evidentemente gli appelli alla concordia bipartisan di Ferruccio De Bortoli hanno avuto i loro effetti. Noi, ingenui, speravamo ai tempi del centrosinistra che gente come D'Alema, Bindi, Bersani e Di Pietro potessero fare addirittura i Pacs. E come potrebbero queste ubbidienti pecorelle subito pronte a tornare all'ovile ratzingeriano affermare i diritti civili delle coppie di fatto quando non riescono nemmeno a garantire un elementare principio di democrazia e un articolo costituzionale, nonché una sentenza della Corte di Strasburgo?
Così tutti quanti a sostenere il governo e la tanto giustamente vituperata Gelmini quando questa annuncia il ricorso del governo contro la sentenza.
Ma è interessante notare le curiose argomentazioni dei nostri parlamentari nel motivare la loro levata di scudi (l'ennesima di quelli della maggioranza) contro un intervento (l'ennesimo) per di più legittimo (l'ennesimo) dell'Europa.
Sentite cosa dice Mario Baccini del Pdl: “Il crocifisso rappresenta valori universalmente riconosciuti sembra che la deriva pagana della Corte europea sia evidente. Si confonde una sana cultura laica con il laicismo”.
Avete finito di ridere? Baccini è riuscito a dire tre cose ridicole in un solo intervento. Intanto chi lo ha deciso che i valori del crocifisso siano “universalmente riconosciuti”? Forse non tutti sanno che la maggioranza dei credenti del pianeta non sono cristiani ma mussulmani. Andiamolo a chiedere a loro se si riconoscono nei valori del cristianesimo. Andiamolo a chiedere al miliardo e 71 milioni di agnostici o ai 262 milioni di atei. Andiamolo a chiedere a induisti, buddisti, ebrei, animisti e a tutti coloro che non sono cristiani.
Io non mi riconosco nei valori cristiani. Non mi interessa se la maggioranza lo fa. Io sono un cittadino italiano come tutti gli altri e lo stato non può discriminarmi solo per accontentare la maggioranza. Ma siamo poi proprio sicuri che la maggioranza voglia i crocifissi nelle scuole?
Baccini dice, udite udite, che la Corte europea va verso una “deriva pagana” nemmeno “relativista” parola che sentiamo tutti i giorni dalla bocca di Ratzinger che non ha ancora capito bene cosa sia il relativismo. “Deriva pagana”. Qualcuno ha detto a Baccini che non siamo più nell'Antica Roma, ma nel 2009? Questa gente non ha la minima cognizione della storia. Ragiona come si ragionerebbe duemila anni fa.
Poi ripete la solita manfrina scontata e per giunta falsa secondo cui il “laicismo” sarebbe una sorta di devianza, di radicalizzazione della laicità. Che ignoranza! In verità il laicismo è soltanto il tentativo di affermare la laicità, il “movimento” di pensiero o di azione che si batte per la laicità. Andate a vedere sul dizionario. La laicità invece è un concetto più astratto. Prescinde dalle condizioni storiche. Il concetto di laicità esiste anche se le istituzioni non sono laiche, come nel nostro caso. Ma il laicismo serve proprio per affermare concretamente la laicità. In questo momento sarebbe quindi indispensabile.
Per Isabella Bertolini, PdL, “Da Strasburgo arriva un pronunciamento simbolo della deriva laicista e nichilista che nega le radici culturali e valoriali della nostra società. Il crocifisso deve restare nelle aule scolastiche e negli uffici pubblici come l'emblema dei valori civili che hanno una origine religiosa, ma che esprimono la laicità stessa dell'ordinamento dello Stato".
Affermazione grave, perché pensare 220 anni dopo la Rivoluzione francese che all'origine dei valori civili del nostro ordinamento c'è la religione è la prova della assoluta inadeguatezza di questa classe dirigente a rappresentare il popolo sia sul piano giuridico che su quello culturale. I “valori civili” non hanno nessun origine religiosa. Lo stato italiano nasce in opposizione, anzi, al clericalismo e alla Chiesa che invece pretendeva di continuare a imporre i propri dogmi a tutta la società. La Carta Costituzionale stabilisce l'uguaglianza di tutte le fedi e non c'è mai scritto da nessuna parte che la religione debba ispirare l'azione legislativa. La laicità poi non può essere derivata dalla religione, tantomeno da una particolare religione perché è l'espressione invece della neutralità rispetto a qualsiasi opinione sulla religione. Emerge quindi una colossale ignoranza di questi “onorevoli”.
Massimo Poliedri della Lega esaspera ancora di più i toni patetici parlando di “dittatura del relativismo” e “attentato alla libertà religiosa” (semmai il contrario) e dice che bisogna discuterne in parlamento, perché adesso le sentenze si discutono in parlamento. Non so come questi personaggi non si rendano conto delle stupidaggini che dicono. Le sparano talmente grosse che anche un bambino se ne accorgerebbe.
Ma non temete, non è solo la destra a dare questo spettacolo pietoso. Bersani, il nuovo segretario del Pd, eletto anche da quelli che del Pd non fanno parte, ha detto “Io penso che su questioni delicate qualche volta il buon senso finisce di essere vittima del diritto. Io penso che antiche tradizioni come quella del crocifisso non possano essere offensive per nessuno”. Di sicuro non c'è molto buon senso nelle parole di Bersani. Secondo lui le tradizione antiche non possono essere offensive. Curiosa posizione. Forse qualcuno dovrebbe spiegare a Bersani che anche l'antisemitismo è molto antico. Anche la sharia è molto antica. Anche il razzismo è molto antico. Anche la persecuzione religiosa è molto antica. Anche il terrorismo è molto antico. Evidentemente per Bersani tutte queste sono cose inoffensive.
Antonio De Poli, Udc, “La sentenza e' una passo avanti verso al perdita delle nostre radici, della nostra cultura, della nostra storia e della nostra civiltà”. Le nostre “radici”, la nostra cultura non sono fatte solo dal cristianesimo, ma anche da altre religioni, anche dall'ateismo e dall'agnosticismo. Ancora una volta dimostrazione della crassa ignoranza di questa classe dirigente inetta e ipocrita.
La sentenza della Corte europea è assolutamente legittima e condivisibile per chi si ispira agli ideali democratici. Vadano a vedere i nostri bravi parlamentari cosa accade negli altri paesi del continente. Vadano in Inghilterra, patria del loro caro liberalismo, vadano nei tanto da loro osannati Stati Uniti, la cui Costituzione vieta addirittura l'insegnamento della religione nelle scuole. Vadano in Francia, in Germania o in Spagna dove l'esposizione di di simboli religiosi è vietata nei luoghi pubblici.
Come al solito in Italia quello che dovrebbe essere scontato, quello che dovrebbe essere condiviso da tutto l'arco parlamentare, quello che dovrebbe essere implicito nelle regole di convivenza e quindi non oggetto di polemica suscita chissà quale scandalo.
Ciò si deve alla presenza invasiva, ossessiva e integralista del Vaticano e della Chiesa nella vita pubblica italiana che condiziona pesantemente e spesso persino detta la linea politica del parlamento e del governo. Ciò è aggravato dal livello infimo dei parlamentari italiani incapaci di rivendicare, dalla maggioranza all'opposizione, l'indipendenza dal potere religioso.
Ciò impone, e lo ripeto ancora una volta, una scelta radicale da parte nostra, di quell'avanguardia civile e sociale che è più consapevole della condizione del nostro paese. Smettiamola di scegliere sempre il “male minore”, ammesso che esista, di accontentarci tutte le volte, smettiamola di cedere al ricatto del voto (in)utile, quello dato ai grandi partiti, alla lobby politica che adesso occupa il parlamento e che è al servizio della lobby economica (banche e imprese) quindi religiosa (Vaticano). L'opposizione non è capace di dire una parola chiara per quanto riguarda la laicità così come per tutte le altre questioni. Questa opposizione si comporta esattamente come la destra. È logico pensare che se fosse al governo attuerebbe le stesse politiche retrograde e antiprogressiste. Basta a chi vuole i crocifissi nelle scuole. Basta a chi si allea con la reazione. Basta a chi abbandona l'Italia alla mercé dei poteri forti. Dobbiamo smetterla di votare per queste persone, dobbiamo smetterla di votare alle primarie del Pd. Dobbiamo ribellarci.


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